Dell’orrore quotidiano, dei migranti, del capitano Catia. E della nostra assuefazione

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Non capita spesso (anzi, quasi mai) di dar conto di telefonate private. Tra amici.
Ma stavolta è diverso.
Stavolta c’è di mezzo una questione da non tener chiusa tra due telefonini e i loro utilizzatori. Una questione macroscopica che chiama tutti alla riflessione. Che impone a ciascuno di liberarsi della pigra assuefazione del: “Già visto, già sentito, già scritto, già digerito”. E allora, ecco il dialogo telefonico tra me ed Emanuele, un mio amico del Nord:

Ema: – “Ohi, ciao. Come va?”
Io: – “Ciao, compagno. Qui, tutt’a posto. Lì?”
Ema: – “Bene, sì. Ma sono sconvolto. L’hai visto ieri sulla Rai?”
Io: – “Cosa? Montalbano? Certo che sì. Sono di quelli che lo guardano per non dimenticarsi in che posti da favola vive…”
Ema: – “Macché Montalbano. Parlavo del docufilm sul comandante Catia Pellegrino che salva vite e migranti nel Canale di Sicilia. “La scelta di Catia” s’intitola. Ed è il primo racconto in presa diretta dell’operazione Mare Nostrum”
Io: – “Ah… sì. No, non l’ho visto in tv. Ma lo sto seguendo, da qualche giorno, sul Corriere.it. Scusa, ma è questo che ti ha sconvolto?”
Ema: – “Sì… è un documentario troppo forte. Nel senso che mostra immagini forti. Lascia stare che Catia sia la prima donna comandante di una nave della Marina Militare Italiana. Fanno impressioni le continue operazioni di salvataggio dalle acque del Mediterraneo di quei disperati pigiati come sardine su barconi alla deriva…”.
Io: – “E sono tutte storie vere. E, purtroppo, quotidiane, a queste latitudini”.
Ema: – “Quotidiane? Ma come si fa a vivere con l’adrenalina a mille, la concitazione, il senso di pericolo? Con la consapevolezza di essere sempre sul filo del rasoio, al confine tra la vita e la morte?”
Io: – “Già. E pensa a quei poveri ‘sommersi’ che chiedono di essere ‘salvati’?”
Ema: – “E io a loro pensavo… E pensavo anche a quelli che invece sommersi sono rimasti, perché nessuna nave è riuscita a salvarli, inghiottiti dal Mediterraneo. Chissà quanti morti nasconde il mare di fronte alla tua Isola?”
Io: – “Migliaia, probabilmente. Come migliaia sono i profughi salvati. Sbarcati nei nostri porti: a Pozzallo e Augusta, soprattutto. Una tragedia, un orrore, un dramma quotidiano“.
Ema: – “Meno male che almeno l’hanno dato in tv ‘sto documentario. Così quelli dell’ ‘aiutiamoli a casa loro’ la smettono di sparare cavolate. Insieme a quelli che dicono che ‘sti poveracci vanno respinti, a ogni costo… Ma hai visto il volto di quei bambini? Hai ascoltato le loro urla? Hai toccato la loro paura? Hai visto gli sguardi di quelle persone? Non sono un pugno nella pancia dell’indifferenza e del razzismo?“.
Io: – “Sì. Però, vedi Emanuele, il problema è che a chiamarle ‘persone’ siamo rimasti in pochi… Io spero che da queste parti non abbiano fatto come me e l’abbiano visto quel documentario, in tv. Quando diamo conto degli sbarchi, degli scafisti arrestati, della tragedia di questi migranti… non sono molti a leggerci. Sarà – brutto a dirsi – l’abitudine a certe scene che si ripento uguali e identiche, quasi ogni giorno…. Sarà che dietro la generica parola ‘migranti’ sta una massa indistinta e lontana di persone. Che invece hanno un viso, mani, occhi, parole, nomi e storie unici… Sarà che da queste parti siamo più o meno soli a gestire esodi di proporzioni bibliche. Non so, Emanuele, cosa sarà. Ma, come dire, c’è una sorta di rassegnazione e assuefazione a certe scene…”.
Ema: – “Ma come? No, dai, non ci posso credere. Quelli sono uomini e donne. E bambini. Non ci può essere assuefazione alla loro sorte. Alla loro tragedia. Al loro stare sospesi tra la vita e la morte, in attesa che qualcuno venga in loro aiuto…”.
Io: – “Emanuele, le persone si abituano alle cose ripetitive. Che siano opere d’arte, come i vicoli e i palazzi di queste città del Sud Est. O siano tragedie. Nel ripetersi con una certa cadenza, gli eventi smettono di essere stra-ordinari ed entrano nell’ordinarietà del quotidiano“.
Ema: – “Può darsi, ma qui c’è di mezzo la vita. Io certi documentari li farei vedere nelle scuole, elementari e medie. Un po’ per far fare un bagno di realtà ai nostri figli, nati e cresciuti col culetto nella bambagia. Un po’ perché mi piacerebbe che fossero i figli, dopo aver visto quelle scene, a zittire quei padri che vorrebbero ricacciare indietro questi disperati“.


L’ho voluta raccontare, questa telefonata, perché dimostra meglio di qualunque altra considerazione una (triste) realtà e il suo (triste) rovescio. La realtà è quella del potere della televisione, che però almeno questa volta ha messo di fronte agli occhi degli italiani un pezzo, vero e ben raccontato, della realtà che li riguarda da vicino. (E poco importa che le immagini mostrate siano dell’anno scorso: in 12 mesi la situazione non è migliorata, anzi…).
Il rovescio è che, appunto, di questa realtà che li riguarda da vicino se ne sono accorti solo guardandola da lontano: scopriamo che la solidarietà in differita è più potente dell’umana pietas per coloro che ci sono così prossimi. Prossimi idealmente, fratelli. E, nel nostro caso, prossimi anche fisicamente.
L’ho voluta trascrivere, questa telefonata, perché possa magari dire qualcosa a noi, che l’operazione Mare Nostrum ce l’abbiamo davanti alla porta di casa e le notizie sugli sbarchi nemmeno le leggiamo più: sentiamoci rimproverati, perché queste storie avremmo potuto – di più, avremmo dovuto – imparare a conoscerle semplicemente spegnendo il televisore e facendo lo sforzo, ogni tanto, di andare a vedere, a incrociare quegli occhi.
Magari portandoci per mano, come ci è stato suggerito “in differita”, i nostri figli.