Andrea, piccola vittima di un crimine disumano. La tragedia di Santa Croce, tra rabbia e pietà

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Sono padre di due figli. A Filippo (6 anni), 10 giorni fa si è aggiunta Agnese. Ma non è per loro, per il loro pianto o i loro brutti sogni, che da sabato non mi riesce di dormire.
A sconvolgermi il sonno è stata la tragica fine di Andrea, 8 anni, scomparso in una mite mattina d’autunno e ritrovato morto in un canneto, lontano da casa.

Sono un papà. E a questi pensieri da papà vorrei, per quanto possibile, provare a dare un ordine (visto che un senso a una cosa così grave non glielo si può dare).
Su tutti, a non poter essere accettata è l’immagine di questo bimbo, innocente e indifeso, che esalava il suo ultimo respiro da solo. Solo: lontano dagli affetti più cari, da casa sua, dalla sua famiglia, dalla sua mamma e dal suo abbraccio. Solo: senza poter trovare negli occhi di lei la dolcezza che potesse attutire la sua, già di per sé insopportabile a quest’età, caduta nell’al di là. Di contro, a urticarmi il cuore è immaginare – anche solo provare a immaginare – lo strazio in cui, da sabato, sono precipitati la madre e il padre. Una mamma che ha accompagnato un figlio, vivo, fino a pochi metri da scuola e lo ha poi ritrovato, morto, a qualche chilometro da casa.

E poi viene a galla, tra la ridda di pensieri, il rifiuto di ogni insopportabile e inaccettabile delitto che abbia per vittima un bambino. Io che da uomo agli orchi non voglio credere (anche se esperienza e ragione mi dicono che gli orchi, al mondo e non solo nelle favole, esistono eccome), da padre trovo disgustoso che il piccolo Andrea – nel nostro mondo da appena una manciata di anni (otto: giusto il tempo che serve a muovere i primi passi nella vita, gli amichetti, le prime prove scolastiche e sportive, i giochi, i compiti da fare, la prima socialità, le prime piccole paure e le prime grandi gioie) – sia stato strappato alla vita in modo (così precoce) così violento.

Un modo tanto violento che adesso, a caldo, si sente levarsi la giustificata rabbia di una collettività sgomenta, spaventata e ferita. E pare di sentire la voce di tutti e di ciascuno mentre chiede: chi e perché ha fatto questo. E ancora ci si domanda se esisterà mai una punizione commisurata a questo insostenibile crimine.

Eppure, da padre e da uomo, mi viene anche da pensare che meglio sarebbe se tutti, provando a pensarci per una volta degni di essere una comunità, dedicassimo all’innocente Andrea un pensiero più adulto, cioè più paterno e pietoso, chiedendoci se esiste un minimo bandolo, dentro la violenza del mondo, che consenta di impedire alle persone grandi di infierire su quelle piccole.

Perché, ed è questo un altro pensiero che brucia dentro, Andrea è purtroppo un simbolo dei tanti bambini che spariscono e non tornano più, simbolo di migliaia di bambini uccisi o violati in famiglia, oppure rubati al calore della casa. Simbolo, allargando ancora un po’ lo sguardo, dei bambini ammazzati (a milioni) dalla fame e dalla sete, o vittime delle guerre.

Solo che, stavolta, Andrea è un simbolo a noi, a me, molto vicino. A cominciare dal punto vista geografico e territoriale. E quando la simbolica vittima di un orrore è così prossima, la domanda che ti si pone davanti non è più di “carattere generale”, ma ti interroga nel particolare, costringendoti a fare i conti con la quotidianità.

Andrea, il suo caso inaudito, la sua inaccettabile fine, mi fanno pensare a questo. Ed è anche per questo che oggi gli occhi dei genitori che ho incontrato davanti alla scuola dopo aver lasciato mio figlio li ho visti spenti. Papà e mamme a testa bassa, desolati. Il povero Andrea fa pensare ai bambini. A tutti i bambini, ai nostri bambini. A ciascuno i suoi.

Lui che è stato un bambino rapito e ucciso da mano adulta. 
Una mano che spetta alla giustizia trovare e giudicare, secondo i criteri del diritto.
Una mano che, mentre mi sforzo di pareggiare la rabbia con la pietà, non posso né voglio considerare parte della famiglia umana.