Prete contro vescovo per funerale ‘conteso’. Una Chiesa ostaggio del clericalismo

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Chissà cosa ne avrebbe pensato il diretto interessato, uomo garbato e pacato, di questa querelle su chi dovesse presiedere i suoi funerali. Un teatrino doloroso, non solo per i familiari, ma per tutta la comunità ecclesiale.

Solo un accenno ai fatti. Le esequie dell’onorevole Antonio Borrometi, celebrate nel duomo di San Pietro, sono state presiedute dal vicario generale della diocesi, monsignor Giurdanella. A presiederle, però, secondo quanto ha detto pubblicamente nell’omelia del giorno dopo (e sulla propria pagina facebook) l’anziano sacerdote don Umberto Bonincontro, doveva essere lui.

“Mi legava ad Antonio – spiega il sacerdote – una profonda amicizia e una stima vicendevole, motivo per cui la famiglia mi aveva chiesto di presiedere l’Eucaristia di suffragio nella Chiesa di S. Pietro… Poche ore prima delle esequie si è intromesso il Vescovo dicendo che il figlio Paolo gli aveva chiesto di presiedere la Messa, e che non potendo perché fuori sede, aveva delegato il Vicario generale. Purtroppo pare che la conversazione del Vescovo con il figlio non sia andata proprio così (!) perché Paolo, telefonandomi il giorno prima, mi aveva chiesto che fossi io a presiedere. Al vescovo è stato fatto notare che la famiglia aveva espresso il desiderio che fosse don Umberto a presiedere ma nulla da fare. Mons. Staglianò si è imposto, forte del suo potere, e il vicario generale non ha saputo spendere una parola autorevole, mostrandosi purtroppo, come sempre, l’uomo del sì. Quando due minuti prima della celebrazione la famiglia, notevolmente contrariata, ha tentato in sacrestia l’ultima forte richiesta, dicendo che per il funerale del proprio caro desiderava che fosse don Umberto a presiedere, la risposta salomonica del vicario è stata: io sono mandato dal vescovo e a me tocca obbedire. A quel punto la famiglia umiliata ha dovuto farsi da parte”.

È il racconto di don Umberto. Il vescovo Staglianò, al momento, non ha replicato.

Abbiamo provato a capire di più, anche se nei fatti le dinamiche emergono abbastanza chiare.

Al netto di chi abbia ragione o meno, di cosa ci si fosse detti e di cosa si sia realmente ‘capito’, qualche punto fermo ci pare di poterlo cogliere.

Il funerale di un personaggio illustre è diventato motivo di braccio di ferro tra il vescovo e don Umberto, manifestando una profonda spaccatura tra una buona parte del clero diocesano e la sua guida. Appare assai chiara l’entrata (a gamba tesa?) del presule che ha voluto stabilire chi dovesse presiedere l’eucarestia (presiedere, perché i concelebranti erano tanti, tra cui Bonincontro): in parole povere, chi dovesse pronunciare l’omelia. Confermando come ancora oggi, per alcuni, essa sia un esercizio  di ‘potere’, estraneo a quello della Parola di Dio.

Ora, per chi non conosce bene le prassi liturgiche, se a presiedere la liturgia fosse stato il vescovo in persona, non ci sarebbe stato molto di cui discutere. In presenza di un successore degli apostoli (a volte si fatica a scorgerlo in taluni presuli, ma questo è un altro discorso) il problema non sussiste: spetta a lui. Ma Staglianò, non potendo essere presente, ha usato la ‘carta’ del vicario generale: inviato a suo nome e quindi – almeno nelle sue intenzioni – indiscutibile.

Non ha calcolato il ‘fattore Bonincontro’, sacerdote che per anni è stato vicario foraneo, punto di riferimento indiscusso… anziano sì, ma uno che non molla. E pare gli pesi un po’ l’essere messo da parte…

È venuto fuori, quindi, il patatrac mediatico (Staglianò, nel bene o nel male, sui media sa sempre come finirci), con tre ‘vittime’.

La famiglia, che suo malgrado è finita dentro a una polemica lontana anni luce dalla persona che piange.

Il vicario generale, costretto a fare da parafulmine all’interno di una comunità diocesana ormai allo stremo (ma qualcuno potrebbe dirlo al Papa che così non si può andare avanti?).

La Chiesa, come comunità dei battezzati. Don Umberto, nell’incipit della sua omelia in piena critica ai modi di fare del vescovo Staglianò, dice così: “Ascoltando questa mattina, nella domenica che Papa Francesco ha voluto dedicare alla Parola di Dio, una delle omelie più incisive pronunciate dal Pontefice, in cui ha richiamato con forza l’eresia del clericalismo, che ha infestato la Chiesa, e che si manifesta nella degenerazione del potere e la rigidità che favorisce l’idolatria… sono stato portato a riflettere su ciò che il Papa chiede con insistenza alla Chiesa, di riscoprire cioè la sua identità originaria: la sinodalità, il camminare cioè insieme, con il potere esercitato, non alla maniera umana, ma come servizio… Mi è venuto spontaneo confrontarmi con la situazione che vivo da parecchio tempo in diocesi, perché non vi ravviso neppure la traccia. Mi sono venuti in mente tanti atteggiamenti su cui è bene stendere un velo pietoso”.

Comprensibile e difficilmente criticabile lo sbotto contro i modi e i contenuti dell’azione pastorale di monsignor Staglianò. Ma il sinodo no, nella circostanza concreta, non c’entra nulla. Il braccio di ferro su chi dovesse presiedere l’eucarestia, al netto della mancanza di delicatezza di fondo, è un fatto squisitamente, disgustosamente, clericale. Muore proprio qui non già la Chiesa (che per chi crede ha fondamenta solide in Gesù Cristo), ma un modo autentico di vivere la Chiesa, come indica proprio Papa Francesco. Il tira e molla, o atto di forza (qualunque sia la lettura dei fatti), è clericalismo puro, perché profondamente centrato su una questione di ‘potere’, in cui – ovviamente – l’ha spuntata il vescovo, senza che nessuno abbia vinto.