“Vogliamo tutto, i diritti civili e quelli sociali”. Natascia Maesi oggi a Ragusa

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Natascia Maesi e Andrea Ragusa

Un appuntamento importante quello di oggi alle 19 al BAM con la presidente di Arcigay nazionale Natascia Maesi, che dialogherà con Andrea Ragusa, presidente della sezione provinciale dell’Associazione, nell’ambito delle iniziative organizzate dal comitato Ragusa Pride in vista della manifestazione del 29-30 giugno e 1° luglio.

Abbiamo incontrato Maesi questa mattina per una breve intervista, nella quale fa il punto sui principali temi dell’agenda politica della comunità lgbtqia+.

Natascia, sei la prima donna eletta presidente nazionale di Arcigay. Cosa vuol dire questo per te in termini personali e politici e cosa vuol dire per Arcigay?

Per me ha significato un cambiamento molto forte nella mia vita, il mio attivismo ha aggiunto una tappa importante. Io sono una donna lesbica, femminista e transfemminista che ha dedicato molta parte della sua vita al tentativo di costruire un mondo più aperto, plurale, che ci accogliesse e che ci facesse sentire liber* tutt*. E per Arcigay ha significato mettere nella propria agenda politica alcuni temi che prima non erano così centrali, temi che derivano da un percorso costruito da tante donne all’interno della Rete donne transfemminista. Credo che la mia elezione sia un riconoscimento al lavoro politico che questa Rete ha svolto all’interno di Arcigay portando temi importanti, talvolta anche scomodi e divisivi all’interno dei nostri contesti di discussione, e spostando l’Associazione verso altri orizzonti rivendicativi.

Da quando sei stata eletta hai infatti affrontato una serie di tematiche molto vasta, alcune nuove rispetto al bagaglio tradizionale dell’associazione che rappresenti, dalla pillola contraccettiva gratuita alla legge 194 al sex work, dal lavoro alla scuola, dall’antifascismo alla razzializzazione delle persone con un vissuto migratorio, assumendo posizioni molto radicali e mostrando una visione politica lucidamente intersezionale. Quale pensi sia il terreno comune delle lotte delle donne, delle persone lgbtqia+, dei movimenti antirazzisti e antispecisti?

Intanto abbiamo capito una cosa fondamentale: esiste un comune denominatore che unisce la violenza di genere e sui generi e l’omobilesbotransafobia, ed è la cultura etero-cispatriarcale che ci opprime tutt*. Tutto ciò che non si conforma al modello dell’uomo bianco, eterosessuale, abile, sano, giovane, che non corrisponde a quell’idea di maschilità che molto spesso è anche tossica, diventa bersaglio di discriminazione.

Quindi sento che sullo stesso piano ci siamo tutt*, le donne, le persone lgbtqia+, le persone con disabilità, le persone che vivono con HIV. Questo vale anche per tutti gli esseri non umani. Tutte le volte che abbiamo la responsabilità di portare nuove pratiche femministe in questo mondo, abbiamo l’obbligo di parlare anche di cura nei confronti dell’ambiente, di abbandonare uno sguardo coloniale e assistenzialista nei confronti delle persone che hanno un background migratorio, uno sguardo che le razzializza, e abbiamo l’obbligo di capire che i nostri vissuti di violenza e discriminazione sono intrecciati, che sulle nostre persone agiscono discriminazioni multiple che vanno affrontate tutte insieme. Avere uno sguardo transfemminista per noi ha significato capire che non c’è una priorità di certe battaglie rispetto ad altre.

Quando diciamo che vogliamo tutto, i diritti civili insieme a quelli sociali, diciamo anche che i percorsi di autodeterminazione delle persone trans, non binarie, intersex sono percorsi che hanno bisogno di affrancarci dal bisogno, dalla precarietà e dalla fragilità anche economica in cui si trovano le nostre vite. Quindi un approccio realmente transfemminista non può non essere anche una critica al sistema capitalistico, che lascia indietro tantissime persone, e alla società della performatività.

Dobbiamo andare verso altri modelli di cura, di accoglienza, di condivisione, di messa in comune, e questo è il valore aggiunto che la nostra prospettiva transfemminista apporta alla nostra elaborazione lgbtqia+, affinché la nostra lotta non diventi “di quartiere” ed elitaria. Noi invece abbiamo l’ambizione di parlare a chiunque e con chiunque.

Parliamo di famiglie omogenitoriali. Hai definito quello che sta avvenendo in Italia una “violenza di Stato, una lgbtqia+ fobia istituzionale e istituzionalizzata”. Proprio stamattina agli “Stati generali della Natalità” la premier Meloni ha affermato che i figli devono nascere solo da coppie eterosessuali. Quali forme di resistenza adottare oggi? Pensi che la disobbedienza civile dei sindaci sia una strada percorribile, ne intravedi altre?

Stiamo attraversando un unicum nella storia di questo Paese, perché questa è la destra più nera di tutti i tempi e sta utilizzando dei dispositivi di potere legati ai meccanismi della rappresentanza e alle istituzioni. Questo è molto grave, perché una violenza agita dalle massime cariche dello Stato diventa una violenza normalizzata, legittimata.

L’attacco alle famiglie arcobaleno attraverso una strada amministrativa, cioè il non riconoscimento degli atti di nascita prodotti all’estero, significa togliere ai bambini e alle bambine il diritto di avere due genitori riconosciuti. Questo cambia in concreto la vita di queste persone, non è semplicemente un atto ideologico. Cambia ad esempio la possibilità di prendere decisioni sulla loro salute da parte del genitore non biologico, o più banalmente quella di andare a prendere i figli a scuola senza una delega. Così non si agisce nel supremo interesse dei bambini, come invece ripete continuamente il governo.

Possiamo rispondere intanto con una sana e praticabile disobbedienza civile, perché quando le leggi sono ingiuste bisogna avere il coraggio di non rispettarle. C’è stata una risposta forte, coraggiosa e visionaria da parte di molti sindaci e molte sindache che hanno scelto di continuare a trascrivere gli atti di nascita, assumendosi le conseguenze. Abbiamo bisogno di atti politici forti e di continuare a introdurre piccole modificazioni dove abbiamo la possibilità di farlo.

Siamo alle soglie dei tanti Pride che si celebreranno da giugno in poi in tutta Italia e nel mondo. C’è un messaggio in particolare che vorresti lanciare alla comunità lgbtqia+?

Voglio intanto ringraziare le persone che si impegnano ogni anno nell’organizzazione dei Pride, che per noi sono momenti di visibilità, di orgoglio, ma anche di resistenza in questo particolare momento storico.

Quest’anno più che mai c’è bisogno di Pride, ma come dico spesso o è Pride tutti i giorni o non è Pride mai, nel senso che dobbiamo portare le nostre lotte nella quotidianità. Queste giornate servono a far capire al resto del mondo che ci siamo, che esistiamo e resistiamo, ma anche che gli spazi che creiamo sono spazi aperti, plurali e attraversabili da chiunque. Noi ci siamo anche per chi non ha ancora trovato il coraggio di vivere con serenità il proprio orientamento e la propria identità di genere, e ci siamo anche per la società civile che non conosce i nostri temi, perché vogliamo accorciare le distanze.

I Pride sono ponti che mettono in dialogo mondi diversi tra loro. Sono spazi in cui torniamo a essere un corpo politico, perché i nostri corpi sono politici, e tutti i nostri corpi sono validi. Nei nostri Pride portiamo i nostri corpi grassi, con disabilità, non conformi, razzializzati, li portiamo con la nostra favolosità e la nostra gioia, che sono una pratica politica per la nostra comunità.