“Integra il reato di molestia l’invio di messaggi molesti, postati sulla pagina pubblica di Facebook”

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Questo il principio enunciato da una recente decisione della Suprema Corte (Cass. pen. Sez. I, 11-07-2014, n. 37596) la quale ha chiarito che integra il reato di cui all’art. 660 codice penale l’invio di messaggi molesti, “postati” sulla pagina pubblica di Facebook della persona offesa, trattandosi di luogo virtuale aperto all’accesso di chiunque utilizzi la rete e quindi di “luogo aperto al pubblico”, così come richiesto dalla norma sopra citata.

I Giudici, in particolare hanno precisato che con l’espressione “luogo pubblico”, deve intendersi, quello di diritto o di fatto continuativamente libero a tutti o a un numero indeterminato di persone mentre, per “luogo aperto al pubblico”, quello anche privato, al quale però, un numero indeterminato di persone ovvero un’intera categoria di persone, può accedervi senza limite o nei limiti della capienza, ma ciò solo in determinati momenti o alle condizioni poste da chi esercita un diritto sul luogo.

La sentenza in oggetto, mette in rilievo la problematica relativa alla violazione del precetto penale in relazione a condotte realizzate sul web (in particolare Facebook). Appare immediatamente evidente il conflitto tra due opposti interessi: da un lato la comunicazione internet, ed in particolar modo i social network, consentono, con nuove modalità, offesa di interessi penalmente tutelati; dall’altro non si può prescindere dai generali principi di tassatività del precetto penale e, soprattutto, del divieto di analogia in malam partem.

Pur tenendo nella giusta considerazione tali opposti interessi, in linea di premessa i Giudici di Piazza Cavour ritengono configurabile il reato di molestie ex art. 660 c.p. con il mezzo di internet ritenendo Facebook assimilabile ad un luogo pubblico.

Nel caso sottoposto al vaglio dei Giudici, all’imputato era stato contestato il reato di cui all’art. 660 c.p. perché, quale caporedattore di un giornale, per personali e biasimevoli motivi, aveva molestato una redattrice del giornale con ripetuti e continui apprezzamenti volgari e a sfondo sessuale nonché inviandole – sotto pseudonimo – messaggi sgraditi attraverso la pagina di Facebook.
Il Tribunale di Livorno assolveva l’imputato dal reato di cui all’art. 660 c.p. con la formula “il fatto non sussiste” escludendo che si trattasse di luogo pubblico o aperto al pubblico. Quanto ai fatti commessi utilizzando Facebook l’imputato veniva invece assolto con la formula “il fatto non è previsto dalla legge come reato”, ritenendosi che l’invio di tale genere di messaggi non integrasse il reato contestato.

La Corte d’Appello di Firenze – in riforma della decisione di primo grado – dichiarava l’imputato colpevole del reato a lui ascritto e lo condannava alla pena di un mese di arresto. In particolare, con riferimento alle molestie realizzate sul luogo di lavoro e in presenza dei colleghi, la Corte affermava che la redazione di un giornale può considerarsi luogo aperto al pubblico. Riteneva integrato il reato anche in relazione alla condotta posta in essere mediante messaggi inviati sotto pseudonimo sulla pagina Facebook della vittima, in quanto Facebook deve considerarsi una community aperta accessibile a chiunque.

Quest’ultimo principio è stato condiviso anche dai Giudici di Legittimità i quali hanno ulteriormente chiarito che la riconducibilità delle condotte alla fattispecie di cui all’art. 660 c.p., non dipende tanto dall’assimilabilità della comunicazione telematica alla comunicazione telefonica, quanto dalla natura stessa di Facebook, considerato “luogo virtuale” aperto all’accesso di chiunque utilizzi la rete e quindi assimilabile ad un luogo pubblico. A parere della Corte, infatti, sembra “innegabile che la piattaforma sociale Facebook rappresenti una sorta di agorà virtuale, o meglio una piazza immateriale che consente un numero indeterminato di accessi e di visioni”.

Dunque, nessun dubbio può esservi sulla circostanza che internet – e nella specie un social network – costituisca a tutti gli effetti un “luogo” di incontro fra più soggetti, non potendosi operare alcuna differenza (giuridicamente rilevante) fra “luogo reale” e “luogo virtuale”. E, peraltro, non pare esservi dubbio sulla circostanza che quel “luogo virtuale” sia un luogo aperto al pubblico nel senso voluto dall’art. 660 c.p. L’accesso può essere, invero, subordinato a determinate condizioni o requisiti (sebbene non oggettivi e soggettivamente determinati) ma ciò non rileva ai fini della configurabilità dell’ipotesi di reato di cui in commento.

In conclusione, si avverte sempre più la necessità che il Legislatore intervenga in materia facendo maggior chiarezza e magari inserendo nel testo normativo la riferibilità del reato a condotte di molestie poste in essere attraverso mezzi informatici.