Stop ai ricorsi per somme minime in Cassazione, bloccano la giustizia

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E’ ben noto come le cause di scarso valore contribuiscono a ingolfare la – già di per sé lenta- macchina giudiziaria, incancrenendo la situazione di cronica emergenza. Così i Giudici della Suprema Corte, Terza sezione civile, con Sentenza n. 4228 dep. il 3 marzo 2015, dopo essere stati chiamati a decidere in merito a una controversia in cui l’oggetto del contendere aveva un valore davvero irrisorio, hanno deciso di respingere il ricorso.

In poche parole, che si abbia ragione o no poco importa, il ricorso potrebbe essere respinto se ciò di cui si discute ha un valore “oggettivamente minimo” e ha solo un fine “patrimoniale” senza alcuna connessione con “interessi giuridicamente protetti“.

Nel caso di specie, si trattava di decidere in merito al riconoscimento di interessi sul capitale per un tardato pagamento di appena 15 giorni. Ritardo per quale il creditore chiedeva il riconoscimento di 33 euro.

Il fulcro dell’intera vicenda è stato esposto dal ricorrente in seno al secondo motivo con il quale veniva dedotta la violazione dell’art. 1218 c.c. e venivano contestate le affermazioni del giudice del merito secondo cui l’importo degli interessi dalla data di notifica del precetto al pagamento ( pari ad Euro 21,68) deve ritenersi meramente simbolico e le spese di notifica del precetto (Euro 6,05) e i relativi diritti di disamina, avrebbero dovuto essere indicate in precetto.

Rileva inoltre la ricorrente che, nessuna norma autorizza il giudice ad eliminare un credito, qualunque ne sia l’entità, pena la violazione dell’art 24 cost., e le spese di notifica del precetto, con i relativi diritti di disamina della relata, non potevano essere indicati nell’atto di precetto perché non conosciuti prima che la notifica stessa fosse stata eseguita, tanto che in tale atto era contenuta la riserva “oltre alle spese di notifica del presente atto e successive occorrende.”

L’onere di diligenza gravante anche sul debitore imponeva che, ricevuto il precetto, fosse chiesto al creditore quali fossero le ulteriori somme dovute. Comunque l’onere della prova dell’esatto adempimento gravava sul debitore.

La Corte ha ritenuto il motivo non  fondato. Nello specifico, è stato osservato che l’interesse a proporre l’azione esecutiva, infatti, quando abbia ad oggetto un credito di natura esclusivamente patrimoniale, nemmeno indirettamente connesso ad interessi giuridicamente protetti di natura non economica, non diversamente dall’interesse che deve sorreggere l’azione di cognizione, non può ricevere tutela giuridica se l’entità del valore economico è oggettivamente minima e quindi tale da giustificare il giudizio di irrilevanza giuridica dell’interesse stesso.

Per tale ragione neppure appare fondato il sospetto che la lettura dell’art. 100 c.p.c. – che la Corte ritiene di condividere- si ponga in violazione dell’alt 24 Cost., che, tutelando il diritto di azione, non esclude certamente che la legge possa richiedere, nelle controversie meramente patrimoniali, che per giustificare l’accesso al giudice, il valore economico della pretesa debba superare una soglia minima di rilevanza, innanzi tutto economica e, quindi, anche giuridica.

Poiché la giurisdizione è, notoriamente, risorsa statuale limitata, ben può la legge, esplicitamente o implicitamente, limitare il ricorso al giudice per far valere pretese di natura meramente patrimoniale, tenendo anche conto che il numero delle azioni giudiziarie non può non influire, stante la limitatezza delle risorse disponibili, sulla durata ragionevole dei giudizi, che è bene protetto dall’art. 111 Cost. e dall’art. 6 della CEDU ( (come interpretato dalla Corte di Strasburgo e quindi comprensivo non solo della fase del giudizio di cognizione ma, anche i connessi procedimenti esecutivi, dovendo la ragionevolezza valutarsi nell’intero periodo intercorrente dalla data di proposizione del giudizio di cognizione a quella dell’effettivo soddisfacimento della pretesa).

D’altra parte, è noto che nella giurisprudenza di questa Corte è da tempo utilizzata la nozione di abuso del processo. In tal senso sono di grande rilievo le argomentazioni con le quali le Sezioni Unite (sentenza n. 23726 del 2007) nell’affermare che non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo ha giustificato tale principio con il richiamo a due principi: a) la regola di correttezza e buona fede, che specifica all’interno del rapporto obbligatorio la necessità di soddisfare gli “inderogabili doveri di solidarietà”, il cui adempimento è richiesto dall’art. 2 Cost., regola che viene violata quando il creditore aggravi ingiustificatamente la posizione del debitore; b) la garanzia del processo giusto e di durata ragionevole di cui al novellato art. 111 Cost., la quale esclude, innanzi tutto, che possa ritenersi “giusto” il processo che costituisca esercizio dell’azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione dell’attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi, mentre l’effetto inflattivo che deriverebbe dalla moltiplicazione di giudizi si pone in contrasto con la “ragionevole durata del processo”, per l’evidente antinomia che esiste tra la moltiplicazione dei processi e la possibilità di contenimento della correlativa durata.

Il ricorso, in conclusione deve essere rigettato. Il no della Corte è stato deciso: cause di questo tipo rallentano la giustizia.