Un caso a caso. Dall’indiano al buskers, ecco come nasce un (falso) mito

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L’estate 2016 rimarrà nella storia, per le cronache iblee, come quella dei miti.

“Il ladro (indiano) di bambine” sembra essere nato attorno a un nucleo ‘originario’, un “improvvido comunicato stampa” dei ‘guardiani’ dell’ordine pubblico.

“Improvvido” (per citare il giudizio del ‘supremo’ magistrato inquirente), ma non certo privo di un qualche fondamento, avendo – con tutta probabilità – trasformato il racconto di alcuni testimoni (genitori inclusi) in documento per la divulgazione.

Qualche riga finita in ‘pasto’ all’affamata platea dell’areopago virtuale è bastata per chiedere la testa del nemico della patria che girovagava con cianciane addosso e qualche litrozzo di ‘oro di bacco’ di troppo in corpo.

Cattura, processo, condanna, esposizione del corpo al pubblico ludibrio, resti abbandonati nel fiume e damnatio memoriae. Tempo concesso alle pubbliche magistrature per eseguire la volontà del popolo soprano (gli ‘acuti’ sulla Grande Rete facevano un baffo alle migliori eroine della lirica di tutti i tempi) 10 minuti. Ed eran già troppi.

L’affronto al popolo dal ‘dito lesto’ arrivò però da una magistrata, sulla quale copiose piovvero le imprecazioni, tanto da implorare il giudizio del sommo Giove e dell’intero Pantheon olimpico.

Quella condanna senza appelli doveva essere eseguita, e la ‘testa’ di quell’infido invasore doveva rotolare per saziare le implacabili Erinni dell’etere, i cui polpastrelli, rossi come il fuoco, scorrevano tra le tavolette d’argilla per scrivere le inappellabili condanne.

Anni dopo, coraggiosi storici e archeologi, si premurarono di approfondire la storia dell’indiano e della bambina. Il più saggio di tutti, facendo ricorso a probe e fidate testimonianze, scoprì come andarono davvero i fatti, e mutò il nome del mito come si conveniva: “L’uomo con la bambina in braccio”.

Giove, pare, chiederà conto e ragione alle fameliche Erinni, e sarà il supremo Tribunale a sentenziare.

“Il giullare giustiziato dai gendarmi”. Altro racconto dai contorni mitici, nato attorno a una strana invenzione assai più recente, che trasforma i dipinti in realissime scene.

Teatro fu il Regno di Mazzarelli, in una sera di fine estate. 

Il carro dei gendarmi, le urla del popolo inferocito, il buon artista di strada stupito. I tre elementi attorno ai quali la storia fu confusamente costruita, ancora una volta dall’eccitatissimo volgo internauta.

La notizia volò di bocca in bocca, si disse che il buon giullare fosse stato fustigato, mentre altri, sospirando, annunciavano l’imminente orribile supplizio ad bestias. 

L’indignazione fu tale e tanta, che anche i ‘saggi’ della città alzarono la voce minacciando finanche la congiura contro il re.

Ancora una volta si dovette, però, riscrivere la storia. I documenti coevi e originali confermarono: non di condanna si trattò, ma di ordinario adempimento alle prescrizioni della legge. Non un capello, già riccio di suo, fu torto al bravo giullare, che – avanzata istanza – poté senza problema alcuno proseguire nella sua nobile arte con bravura ed eleganza.

Le due ‘favole’ dimostrano che: 

Qualcuno fa bene a ricordare che leggi e rispetto non si posson di certo cancellare.

Neppure il sacro volgo dal dito incandescente cambiar può il ‘vetro in zucchero’ in un niente.

Se un mito, allora, ci si vuole inventare, che almeno un briciolo di vero abbia a raccontare.