“Le malattie possono anche servire. Sono con chi soffre. Tutto può anche sembrare bello”

360

Se si è ammalati si possiede una poltrona con cuscini morbidi. Un letto con lenzuola celesti e setosi. Si mangia ad orari improbabili. Ci si copre con vestaglie e con plaid delicati. Si prendono pillole frizzanti, si mettono bicchieri sul comodino e libri e scatole di medicine ma anche anelli e profumi nelle bocce di cristallo. Si cercano fotografie antiche. E si aprono gli armadi toccando gli abiti immobili, si guardano gli uccelli infreddoliti sul balcone. La sera si aspetta il tramonto e la luna che sale e illumina i monti lontani e quieti. Si dorme con difficoltà e si sognano fatti coloratissimi e gioiosi. A volte si prega, a volte si ride, spesso si parla con i medici e loro ascoltano pazienti fino a tardi. E tutto può anche sembrare bello. E forse lo è.

35 anni fa andai dal mio medico. Dopo varie visite mi disse: “e poi scriverà un libro di ciò che sta passando”. Sorrisi. Scrivere mi piaceva ma non avrei mai pensato ad un libro. E invece, col tempo ormai trascorso da quel momento, ne ho scritti vari. E non ci credo, quasi. E sono questa e molto altro. Le malattie, alla fine, possono anche “servire”, se con ciò vogliamo consolarci. Sono con chi soffre. Sono con chi scrive.

Telefono ai miei medici, alle 14,30 di un sabato di luglio. Nella controra, qui, in questo paese in preda allo scirocco. Scelgo un momento di calma per loro. Dobbiamo dire tanto di me. Di un oggi che mi vede malata, ma da sempre ormai. La persiana blu e il rigo del mare fra le gelosie, la gazza arrabbiata, la tortora cupa e monotona, il letto disfatto, i miei vestiti molli sulla sedia, senza corpo. Il dolore che mi prende e di cui riderei con piacere, non fosse che sento il collo attorcigliarsi in più giri e strangolare tutto. Questa è una campagna viva, la ascolto da lontano, nei rumori adesso ovattati, nel caldo che annienta tutti. I miei medici sono almeno tre, li immagino attenti al mio parlare. Finisce che sorridiamo, che io racconto del mio spostarmi di ieri in auto e del dolore che ha assalito il corpo debilitato e non abituato ad uscire. Ho rivisto il mare dopo un anno, la costa aprirsi nell’aria che tremava. Un tempo la strada aveva alberi di gelsi e cunette che facevano sobbalzare. Oggi rotatorie e non più mucche al pascolo che dormivano sotto i carrubi accovacciate e con gli occhi fissi. Niente mi può curare, così mi dicono, forse potrò risolvere un problema sopraggiunto da poco e di natura diversa e che mi desta timore, mi confortano, hanno parole e sorrisi per me. Ci lasciamo mentre un cardellino sosta sulla veranda e la tenda si gonfia fino a toccarmi. La luce che penetra. Il senso del niente per ogni cosa e fatto. Buona domenica, dico loro. E il mare resta fermo giù, in fondo, in questa isola antica.