La ‘sfida’ di Loredana, per una scienza che sia sempre più paritaria

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Fare il ricercatore oggi, in questo particolare periodo storico, è davvero una bella sfida…

Io sono Loredana, ho 34 anni, e dal 2012 mi occupo di ricerca scientifica presso l’Università di Catania. Dopo la laurea in Biologia Cellulare e Molecolare, nel 2017 ho conseguito il titolo di Dottore di Ricerca. Successivamente, grazie alla Fondazione con il Sud, ho avuto l’opportunità di svolgere il mio primo post doc nel laboratorio del Prof. Nunzio Iraci.

Durante questi anni abbiamo studiato come gli astrociti e i neuroni comunicano tra di loro mediante la secrezione di vescicole extracellulari, ossia frammenti cellulari contenenti materiale genetico, nel contesto della Malattia di Parkinson.

Fare ricerca è un lavoro affascinante, ti dà la possibilità di affrontare tematiche sempre nuove, approcci innovativi e tecniche all’avanguardia. Ti stimola a risolvere problematiche di vario tipo e a metterti in gioco in diverse situazioni. Dietro il lavoro dello scienziato c’è quindi tanto impegno e sacrificio. Ci vuole molta dedizione per portare avanti esperimenti che si prolungano anche molte ore durante la giornata, a volte anche nei weekend, e spesso per ottenere dei risultati servono mesi, se non anni di ricerca.

Purtroppo, come è noto, qui in Italia la ricerca non è molto valorizzata, i fondi messi a disposizione sono limitati, e ciò rende il lavoro del ricercatore altamente precario e competitivo. E per le donne è anche più complicato fare carriera in questo settore. In Europa, ad esempio, le donne rappresentano il 50% dei ricercatori junior e dottorandi, tuttavia la loro presenza scende al 40% per le posizioni di ricercatore senior o professore associato, mentre solo il 24% di esse ricopre un ruolo di direttore scientifico o professore ordinario. Queste percentuali mettono in evidenza come sia difficile per le donne farsi strada in una società che talvolta tende a sottovalutare le loro capacità. Ne è un esempio la storia del famoso neuroscienziato Ben Barres, alla nascita Barbara Barres, che nei suoi scritti “Does gender matter?” (2006) e “Autobiography of a Transgender Scientist” (2017), descrive come le donne siano state (forse in alcuni casi lo sono ancora) considerate meno predisposte a competere in maniera aggressiva nella “lotta feroce per la sopravvivenza” nella scienza, poiché ritenute innatamente avverse al rischio, meno astratte e troppo emozionali.

Barres ha sperimentato su di sé sia la discriminazione, mentre era una “femmina”, sia la stima e l’elogio, quando poi è diventato un “maschio”. Per citare un aneddoto, durante il suo primo seminario tenuto dopo la transizione da donna a uomo, il commento di uno scienziato lì presente fu: “Ben Barres ha tenuto un grande seminario oggi, ma il suo lavoro è migliore di quello di sua sorella Barbara”, credendo che Barbara fosse sua sorella.

Fortunatamente le cose pian piano stanno cambiando, sebbene la strada da percorrere per la totale equità sia ancora lunga. Nonostante ciò, questo è il lavoro che ho scelto e che vorrei poter continuare a fare, e il mio augurio è che tutti, in qualunque settore, possano avere l’opportunità di perseguire le proprie passioni e i propri sogni, lottando se necessario… ma ad armi pari.

Loredana Leggio