Cento anni dell’Inda. Aperte le celebrazioni con un pregevole “Agamennone”

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Agamennone apre il ciclo delle rappresentazioni classiche al teatro greco di Siracusa nel centenario di fondazione dell’Inda. La prima è stata un grande successo di pubblico che ha apprezzato il lavoro di Luca De Fusco. Mirabile la scenografia, funzionale soprattutto alla narrazione delle sciagure della casa di Atreo. E’ la terra sulla quale fluttuano dei morti viventi a rappresentare il vero centro narrativo. Arnaldo Pomodoro, grazie a questa polverosa e indistinta macchia di bruno, unisce la sventura della famiglia regnante a quella dell’intero popolo. E’ il grande pregio di questa messinscena, quello di aver recuperato il significato e l’importanza del coro all’interno della rappresentazione tragica. Non di rado bistrattato, per far emergere solo le individualità protagoniste, nell’Agamennone portato in scena da De Fusco il coro riveste, invece, il ruolo che gli appartiene. Emerge dalla terra, ma non risorgerà mai davvero. I singoli componenti del coro, composto da professionisti e da giovani e talentuosi studenti dell’Accademia dell’Inda, tra i quali il ragusano Vladimir Randazzo, rotoleranno tra la polvere del destino che li trascende e li trascina. Torneranno nel ventre della terra, nel silenzio che avvolge il prologo di ogni tragedia umana. E’ sempre la scenografia ad anticipare i fatti in una narrazione visiva di straordinario impatto. Agamennone e Cassandra raccolti nella pancia di una nave assai troppo simile ad una bara. Anche per lui il ritorno – resurrezione durerà ben poco. Le porte della reggia si chiuderanno dietro le sue spalle, e sarà lì che – lontano dagli occhi dello spettatore in religioso ossequio della tradizione teatrale classica – Clitennestra porterà a compimento la propria vendetta. Il rosso del sangue sulla spada restituirà la dimensione del tragico e l’orrore per ciò che avverrà. Perchè un evento funesto non può mai rimanere senza conseguenze. E’ Egisto (un plauso all’interpretazione di Andrea Renzi) a ricordarlo, nel racconto del peccato originale che scorre nelle vene del sangue della dinastia argiva. Acuta la delineazione psicologia dei personaggi, con Clitennestra (bravissima Elisabetta Pozzi) che non proverà mai ad ottenere il consenso per ciò che ha compiuto. Un crimine odioso contro il proprio uomo o il compimento di una qualche forma di giustizia? L’interrogativo che nell’immediato il popolo di Argo non si pone, ma l’Agamennone è solo l’incipit dell’Orestea, racconto di vendette e di tregue concesse dagli dei. Ritornano ad avvolgersi nella nuda terra i cittadini di Argo, mentre lo spettatore solo per un momento (lunghissimo e meritato l’applauso in piedi dei 4.000 che hanno assistito alla prima) si abbandona ad uno stacco tra vita e rappresentazione. Ma è un attimo, è solo illusione. Poi prepotentemente la messinscena torna a rappresentarsi nella mente, perchè il racconto di Agamennone e della moglie Clitennestra, dell’innocente Ifigenia uccisa per far piacere agli dei e di un popolo oppresso dalla colpa di chi lo governa è metafora della vita. Quella terra che all’inizio della rappresentazione sembra brulicare di vita sotto i raggi di un sole al tramonto, piomberà nel cupo della notte quando ogni cosa, lungamente attesa e meditata, sarà compiuta. Azzeccata la scelta della traduzione di Monica Centanni. Geniale, sul finale, l’idea delle note di blues.