#Migramed a Istanbul. Solitudine e speranza: la vita dei profughi siriani in Turchia

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Riportiamo la testimonianza di Emiliano Amico, della Caritas diocesana di Ragusa, che nei giorni scorsi ha preso parte al#Migramed ad Istanbul, insieme al direttore, Domenico Leggio, e al responsabile immigrazioni, Vincenzo la Monica. #Migramed è un convegno sull’attuale panorama migratorio internazionale, sulle rotte orientali e sul dialogo interreligioso.

Ecco la testimonianza di Emiliano:

Incontriamo una famiglia cattolica di rifugiati siriani che viveva a Mosul, la cui figlia maggiore, che parla inglese, ci racconta la loro lunga storia. Tutto è iniziato con un ultimatum: “entro 2 giorni dovete scappare, lasciare tutto”; altrimenti la guerra li avrebbe travolti ed il finale si conosce già quale potrebbe essere stato. Hanno lasciato tutto: casa, parenti, amici, sicurezze, stabilità e forse anche il loro futuro. Perché “forse”? La loro è una vita sospesa da più di 5 anni, hanno lasciato l’orrore della guerra, per avere ancora vita da vivere. Ma a che prezzo?

Risiedono in Turchia, esattamente ad Istanbul, sono dei rifugiati, ma come tali il governo impone loro di non lavorare e a quel punto ti chiedi come poter vivere, come mantenerti. Il padre ha 53 anni circa e non può lavorare ed il governo non permette ai figli di poter frequentare la scuola. Rakma, la sorella maggiore, 21 anni, ci racconta che è l’unica a poter lavorare per mantenere la famiglia, poiché conosce 3 lingue. Le chiediamo di raccontarci un po’ del suo lavoro: lavora circa 12 ore al giorno e la sua paga è di 250€ al mese… Chiediamo anche se è contenta di questo lavoro, e lei, sorridendo, dice di no; questi soldi infatti sono pochi e bastano a poter pagare solo l’affitto, inoltre la paura più grande è suscitata dai continui blitz della polizia turca che se la scoprisse a lavorare l’arresterebbe e la riporterebbe indietro. Per fortuna che ci sono una nonna in America ed una zia in Francia che ogni due mesi inviano soldi per poter andare avanti.

Quindi “siete sereni”? Lei risponde: «Quello di cui noi abbiamo bisogno non sono i soldi o i vestiti; per fortuna per quelli arriva la provvidenza. Quello di cui abbiamo bisogno sono la libertà e la dignità, come persone, di poter lavorare ed avere una vita normale. Vorrei che i miei fratelli potessero studiare, io vorrei iscrivermi alla facoltà di psicologia, ma non mi è permesso in quella pubblica; per la privata neanche a pensarci! Oltre a non avere i soldi, devo lavorare per poter mantenere la mia famiglia. Da anni siamo in lista d’attesa per un resettlement, mah… chissà quando arriverà».

La mamma ci prepara una torta molto buona, sono accoglienti, una famiglia normale, unita… che prega e spera in un futuro migliore. Nel frattempo in città la presenza dei padri Salesiani, attraverso l’oratorio, è l’unica possibilità di aggregazione per poter essere sostenuti, vivere la fede, imparare un po’ la lingua… e cosa più importante: non sentirsi soli. Ogni giorno i fratelli della Caritas turca li incontrano, c’è un’amicizia e cercano loro di non far mancare nulla.

Bene, è arrivato il momento di salutarci e Rakma ci dice: «Sicuramente adesso parlerete del vostro incontro alle persone di vostra conoscenza, vi prego non lasciate che tutto finisca lì, rimaniamo in contatto, per noi questo pomeriggio è stato importante per non sentirci soli». Come rimanere impassibili al momento del concedo? Un nodo alla gola prende il sopravvento e le uniche parole che riesco a dire solo: «I will pray for you and your family, God bless you Rakma».

Certamente la presenza più bella della Chiesa, vicino ai fratelli profughi, è quella del Nunzio Apostolico. Mi ha colpito molto, uomo di cuore, con un volto luminoso e quando celebrava insieme ai pochi fratelli cattolici presenti, notavo come si immergeva nella preghiera, quella linfa importante che fa diventare anime elette, anime, mani, cuore e mente che agiscono con il cuore di Dio. Lui ha già parlato con un suo amico Vescovo in Michigan, il quale vorrebbe prendere 500/600 profughi e portarli in America per aiutarli, ma al momento le politiche attuali hanno chiuso le frontiere e i cuori.

Una cosa mi colpisce delle parole del Nunzio, lui diceva: «Sapete cosa soffrono i profughi cristiani Siriani? Il sentirsi dimenticati dai loro fratelli europei, questo è il dolore più grande che portano; quando li incontro cerco di portare loro speranza e calore umano».