Di noi in quelle primavere in cui fummo felici

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Mettevamo i “completini” di lana d’angora e avevamo in cucina tavoli di formica colorata, i frigoriferi Atlantic e io pure un gatto che mi attendava in fondo al corridoio per farmi un agguato ogni sera. La stufetta elettrica. Cristo si è fermato a Eboli sul comodino di mia madre. Una libreria in tek, carta da parati a disegni geometrici, stucchi bianchi sulle volte delle stanze. Scuri alle finestre, un frullatore Girmi, il bollitore per il latte del mattino con la pellicina che disgustava. Una capanna in balcone, fatta con coperte vecchie e lenzuola, due cuscini, le bambole bionde dai capelli ricci. Cominciai ad amare credendo fosse quello il vero sentimento. Pioveva sul palazzo di fronte, guardavo gli abitanti nelle loro camere, le ragazze che studiavano la sera con accanimento, le luci delle lampade. Sciroppi di amarene nei calici alti, la “Vecchia Romagna” per i genitori, la TV accesa solo per poche ore. Le rose sul balcone e le rondini col nido sulla grondaia a primavera, giravano in tondo alla croce della chiesa vicina dei Cappuccini. E fragoline di bosco in Aprile, ricottine calde nelle “cavagne” vendute ogni giorno sulla strada alle due del pomeriggio. E io che piangevo sempre a quell’ora, guardando la piazzetta e i ragazzi giocare a palla. Lacrime senza perché. Lacrime e basta.