Un amico mi scrive oggi di un troppo tardi. E allora mi commuovo e scrivo pure io

407

Durante la chiusura in casa per il coronavirus abbiamo cantato affacciati ai balconi con una certa commozione, mentre si moriva in Lombardia e in Veneto e ovunque. Prima che ci si incattivisse, prima che ci si odiasse, prima che un vaccino ci dividesse come per sempre. Ora non canteremmo più. Ora crediamo di sapere tutto. Allora era la spesa lasciata dietro la porta, il cane per la passeggiata veloce, la corsa intorno al palazzo, il vicino mai ligio, la coda in farmacia, il non guardarsi più negli occhi, i negozi chiusi tranne le librerie per darci il sogno scritto. Eppure fummo noi. Eppure siamo “cresciuti” e non più amati: troppo dolore.

Insegnai per un anno nelle scuole rurali. In pluriclassi. Bimbi di prima e seconda ascoltavano le lezioni di storia dedicate a quelli di quinta e così la geografia e la matematica. Sapevano tutto pure loro. E sembrava si facesse una gran confusione ma poi non era così, tutto nelle loro teste si metteva in ordine, stranamente. Facevo fare ogni mattina il famoso dettato. Lo inventavo seduta stante, con parole mie, non attingevo al libro di lettura. Sapevo cosa dire, e come doveva servire. Intanto in inverno pioveva a scrosci nella campagna e i massari ripotavano le mucche in stalla indossando cerate spesse sui capi e sulle spalle e tenendo lunghi bastoni nodosi. Se poi spuntava il sole i lori figlioletti piccoli uscivano nel ”baglio” dalle basole scivolose e lucide e avevano le guance infuocate e occhi lucenti, le galline ritornavano ad essere impettite, i gatti sonnacchiosi. I miei scolari guardavano dai vetri tremolanti tutto ciò e mi chiedevano se potevano cogliere mazzetti di fiori nella chiusa vicina, con sorrisi timidi. Allora io costruivo un aquilone e loro lo portavano con sé, e l’erba era splendente dopo il temporale e io starnutivo con gli occhi lacrimanti, e poi mettevano i fiori gialli e fucsia in un bicchiere e ricominciavamo disegnando, con matite smozzicate, sui quaderni gonfi dai fogli con gli angoli tutti piegati, e si sprigionava un odore di sterco e di mondo diverso. E poi li salutavo e loro mi dicevano ciao piano ed io salivo sulla mia Golf metallizzata e tornavo in città. E non me li scordai mai.

Un amico mi scrive oggi di un troppo tardi. E allora mi commuovo e scrivo pure io. Al posto di molti di voi che avrete un troppo tardi nelle vostre vite di sicuro. Io l’ho capito che non dovevo arrivarci a ciò, ora che tutti i giochi sono stati inevitabilmente fatti. E se questo amico dice della scuola e dell’importanza dell’italiano a discapito di altre materie ha ragione. Sono vissuta anche io solo dell’italiano sin da quando mia madre maestra mi faceva mangiare recitando poesie importanti e anche lievi e anche dolorose, che ingoiavo insieme ai bocconi di carne e mela annerita. L’italiano dei temi non sempre perfetti, delle antologie studiate nelle sere di freddo e pioggia, l’italiano degli esami di stato superati finalmente con conferme positive, il ritorno a casa con i fogli uso bollo su cui scrivemmo tutti i nostri componimenti mentre le mani tremavano nella paura di sbagliare. Lui, l’amico, dice che poi si è voltato indietro al pari mio e che forse è stato tardi e ha ragione. Per noi che fummo gli stessi di sempre, portando sulle spalle voltate tutta la vita sbagliata e le parole mai dette.