Da Vittoria agli USA, la scalata di Fichera nella robotica medica

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Da Vittoria passando per Catania per poi giungere prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti. Sono queste le tappe che hanno scandito e continuano a scandire la carriera di successo del vittoriese Loris Fichera, 38 anni, che lo scorso marzo è stato promosso a professore associato di Robotica presso il Worcester Polytechnic Institute, non distante da Boston.

Fichera ha iniziato il suo percorso accademico a Catania, dove ha studiato ingegneria informatica.

“La robotica- dichiara a Ragusah24– l’ho scoperta grazie a due docenti, Corrado Santoro e Giovanni Muscato, che hanno svolto un ruolo cruciale nella mia formazione.  Dopo una breve parentesi lavorativa al di fuori dell’università, ho proseguito gli studi presso l’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, dove ho conseguito il dottorato di ricerca specializzandomi in robotica applicata alla medicina. Al termine del dottorato, il professor Roberto Webster, esperto americano di robotica, mi ha offerto di unirmi al suo gruppo di ricerca presso la Vanderbilt University a Nashville, in Tennessee, per sviluppare un robot per interventi chirurgici all’orecchio. Naturalmente ho colto questa opportunità al volo. Le possibilità di rimanere in Italia non mi mancavano, tuttavia ho ritenuto fosse più proficuo per la mia formazione intraprendere una esperienza lavorativa all’estero, con l’idea, magari, di rientrare dopo uno o due anni. Una volta trasferitomi negli Stati Uniti, ho scoperto di trovarmi molto a mio agio nel sistema accademico americano, al punto da decidere di stabilirmi permanentemente da questa parte dell’oceano e di intraprendere qui la mia carriera da professore”.

Cosa ti manca dell’Italia?

“Tante cose. Prima di tutto la mia famiglia e i miei amici. Della vita in Italia personalmente mi mancano le interazioni quotidiane, in particolare i gesti, i non detti, la comunicazione non verbale di cui noi italiani facciamo largo uso e che spesso ci permette di intenderci al volo, senza avere bisogno di proferire parola.Devo confessare che mi manca anche molto il mare, il Mediterraneo. L’oceano, al confronto, è freddo e ha una vastità che incute timore”.

Hai mai pensato di tornare?

“Dovesse presentarsi l’occasione giusta per me e per la mia famiglia, perché no? Mai dire mai”.

Quanto ti senti americano, ormai?

“Molto. Ma credo sia inevitabile, dopo avere vissuto qui per tanto tempo, no? Ricordo di aver assistito, molti anni fa, a un intervento pubblico di Luca Parmitano, il noto astronauta siciliano, in cui si rifletteva sul concetto del sentirsi a casa e di come esso si trasformi con l’esperienza: per un siciliano che vive al Nord, tornare a casa vuol dire attraversare lo stretto e tornare in Sicilia. Per chi si trova oltre confine, tuttavia, l’intero territorio italiano diventa ‘casa’. E per chi dovesse trasferirsi oltreoceano, l’Europa intera sarà vista e sentita come casa. Anche per me è stato così: dopo tanti anni qui, il concetto di casa si è ampliato fino a includere anche l’America”.

Quanto sei rimasto italiano e siciliano in particolare?

“A casa, con i nostri figli, parliamo italiano e talvolta siciliano. Leggiamo libri in italiano, ascoltiamo tantissima musica italiana.  L’intraprendenza è probabilmente un altro dei tratti che ho sviluppato in Sicilia e che porto sempre con me: sul lavoro, sono uno di quelli che non aspetta che le cose accadano ma piuttosto, mi impegno per farle accadere, anche quando si tratta di compiti che non spetterebbero a me. In Sicilia si dice ‘cumanna e vacci’. L’intraprendenza è spesso fondamentale per costruirsi opportunità”.

I tuoi figli dove sono nati e perché?

“I miei figli sono nati qui a Boston. Sul perché siano voluti nascere qui, forse occorrerebbe chiedere a loro [sorride]”.

Dove ti vedi fra dieci anni?

“Tra dieci anni, i miei figli saranno adolescenti. Sembra folle pensarci adesso, ma il più grande sarà in procinto di finire la scuola e forse andar via di casa per studiare al college. Ecco, tra dieci anni mi piacerebbe continuare a essere un riferimento per loro. Mi auguro di poter continuare ad aiutarli a capire il mondo e a navigarlo, sia nelle esperienze positive che in quelle negative che inevitabilmente vivranno. Mi auguro che i miei figli mantengano un legame con l’Italia e con le loro radici.

Lavorativamente parlando, continuerò a lavorare su tecnologie che migliorino la medicina e rendano le cure più accessibili. Mi auguro anche di avere l’opportunità di aiutare giovani studenti a formarsi e a crescere, così come i miei mentori hanno fatto con me”.