La speranza che coltiviamo

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A tutti i livelli, in tutti i contesti e le aree geografiche si ha la netta sensazione che stiamo attraversando un periodo che potrebbe essere definito di “oscurantismo”. La crisi economica che sembra non risparmiare nessuna Nazione, i conseguenti tagli all’effimero e purtroppo anche a settori vitali per la crescita di una società come la cultura e la scienza, ci fanno guardare al futuro con molta preoccupazione.

Eppure è proprio in questi momenti complessi soprattutto dal punto di vista sociale che , come per miracolo, secondo quel fortissimo spirito di sopravvivenza dell’essere umano, che torna di grande attualità un sentimento apparentemente obsoleto: quello della fiducia nel futuro. Uno spirito che da sempre permette all’uomo di progettare il proprio domani: la speranza.

Il momento storico che viviamo è per definizione dei più importanti sociologi quello della “fine” delle ideologie, della storia, della modernità, l’epoca nella quale è forte la tentazione della fuga da un mondo fattosi d’un tratto ostile, evanescente e “liquido”, per utilizzare un termine caro al sociologo polacco Zygmunt Bauman.

La globalizzazione, che ha creato il villaggio globale, sta estirpando dall’individuo la sua appartenenza, la sua affiliazione e la sua patria. I punti di riferimento sono vaghi. L’obiettivo è rendere l’essere umano consumatore e servitore di coloro che, nell’ombra, gestiscono a distanza le persone e i popoli. A tutti i livelli. Questi fatti causano, consapevolmente o inconsapevolmente, mancanza di slancio e molta poca fiducia nell’avvenire. Così, accade che nelle nostre città, il comportamento spensierato dei giovani può anche essere descritto come suicida perché essi sono impazienti, aggressivi, alla ricerca di risultati immediati e senza fiducia nel futuro. Al comportamento inquieto dei giovani, ogni giorno che passa, purtroppo si aggiunge anche quello dei genitori che vedendosi crollate le loro certezze e quanto costruito con una vita di sacrifici e di dedizione al lavoro, traballano, crollano! Non riescono più a sperare in un futuro migliore, diverso.

Eppure da sempre la speranza è il motore della vita. Nella speranza di restare immortali sono stati costruiti Mausolei dalla bellezza mozzafiato. E’ stata la speranza di lasciare un segno della propria arte nella storia che i più grandi artisti hanno concepito le loro opere, i poeti scritto i loro versi, gli architetti innalzato cattedrali e grattacieli, le une e gli altri slanciati il più possibile verso quel Cielo che della speranza è, per tradizione, la sede più accreditata. Una speranza, quella di una vita migliore, ha guidato le grandi rivoluzioni della storia e armato i popoli che si sono battuti per la propria indipendenza, ha nutrito la fede dei missionari che hanno speso la vita per aiutare i loro simili, confidando in questo modo di rendere il mondo migliore e di dare testimonianza dell’intima bontà dell’uomo, mentre la fede nella possibilità che gli esseri umani imparassero a vivere in pace e nel rispetto reciproco ha ispirato la penna di quanti hanno redatto quelle leggi e costituzioni cui è stato affidato il compito di garantire la giustizia e la concordia tra gli abitanti di uno Stato. E’ stata sempre la speranza, infine, che ha permesso all’umanità di superare i momenti più difficili della sua storia, di affrontare guerre, fame e catastrofi di ogni genere, di superare la paura dell’ignoto che si annunciava dietro una data densa di presagi o un inaspettato fenomeno naturale, di sopportare, quando non era possibile comprenderlo, l’odio cieco dei loro simili, se è vero che persino un Primo Levi, rinchiuso in un campo di concentramento, si sentiva invaso da una “speranza di sopravvivere” che dentro di lui si tramutò a poco a poco nella “speranza di raccontare”. Reminiscenze liceali mi riportano ad uno dei più importanti esponenti dell’illuminismo tedesco, e anticipatore  degli elementi fondanti della filosofia idealistica: Immanuel Kant. Egli attribuisce alla speranza un posto centrale nella sua concezione del mondo, inserendo la domanda “Che cosa devo sperare?” tra i quattro grandi interrogativi della filosofia, insieme a quelli sulla conoscenza (Cosa posso sapere?), sulla morale (Cosa devo fare?), e sulla natura umana (Che cos’è l’uomo?). Quel che possiamo – e dobbiamo – sperare è di saper vivere come se ogni giorno fosse l’ultimo, e come se ogni nostra decisione dovesse assurgere da un momento all’altro a legge universale. Quello di Kant, del resto, fu il tempo più capace di speranza: l’età dell’Illuminismo, che portava in sé la promessa di una redenzione laica dell’uomo per mezzo della ragione e del suo frutto più maturo: la scienza.

La speranza la si può trovare nei reparti maternità degli ospedali, dove la speranza appunto di realizzare un progetto più grande di loro fa stringere i pugni ai neonati nelle proprie culle; nelle chiese dove si celebrano i matrimoni, patti siglati nell’auspicio che l’amore possa vincere il disamore; nei centri di ricerca, dove uomini e donne di scienza coltivano l’antico e mai sopito sogno in un futuro libero dal dolore e dalla malattia; nei campi profughi e negli angoli dimenticati del “Terzo Mondo”, dove uomini e donne venuti dal “Primo” mettono conoscenze e buona volontà a disposizione di chi ne ha più bisogno; nelle scuole, dove si insegna ai giovani a costruire il futuro facendo tesoro del passato, e perché no, nei campi di calcio, di basket, di pallavolo, in tutti quei luoghi in cui s’impara ad aver fiducia nelle proprie possibilità e a mettersi in competizione (sana) con gli altri e con se stessi. Anche con la paura di sbagliare, di non saper tirare il calcio di rigore della vita.