Le immagini, lo choc, i morti di Pozzallo. E una parentesi sul voyeurismo

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A detta di molti, una pagina choc, quella pubblicata dal quotidiano romano Il Tempo, qualche giorno fa.
Con i 45 corpi rinvenuti nella stiva del peschereccio trainato a Pozzallo. Una foto agghiacciante, certo. Fortissima testimonianza del terribile scenario apparso agli occhi dei primi soccorritori. Troppo macabre, troppo forti, troppo crudeli quelle immagini? Sì, senza dubbio. E visto che sul web (e non solo) se ne sta discutendo molto, provo a dire la mia.

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Faccio questo mestiere da un po’. E qualche redazione l’ho frequentata. E non ho mai trovato un’opinione univoca, tra direttori e capiredattori e giornalisti, rispetto alla scelta di pubblicare o meno “le immagini della morte”. Che poi, necessariamente, sono foto dure, crude, forti, drammatiche. Raccapriccianti.
Foto di corpi senza vita. Foto di persone, uomini e donne, che non ci sono più. Che non respirano più. Che non rispondono più, neanche allo sguardo.

Credo sia utile il dibattito sul tema. Su come i media debbano comportarsi, in questi casi, di fronte a certe scene: metterle in pagina (o sul web, o in onda)? E come? E perché?
Per far riflettere l’opinione pubblica e i lettori (o i navigatori) e, come ha detto all’AdnKronos Oliviero Toscani, ideatore in passato di diverse campagne shock: “far comprendere veramente la tragedia in atto. Perché tutti devono vedere quello che sta succedendo: è un olocausto e troppe persone fanno finta di niente. Perché queste sono le cose veramente gravi, non la nazionale italiana eliminata dai Mondiali”?

Sì, ma poi con l’accusa di voler vendere qualche copia in più (o fare qualche clic in più), istigando le passioni voyeuristiche dei lettori, come la mettiamo?
Insomma: certe foto sono pubblicabili si o no? Come ci si comporta di fronte a tragedie di questo tipo?
Ho più di un dubbio anch’io, in merito. (E per fortuna, aggiungo tra parentesi. E non solo perché coltivare dubbi è attività poco sponsorizzata ma molto produttiva. Ma anche perché se non mi ponessi certe questioni, credo, farei un altro mestiere).

Ecco, stavolta, anche senza condividere l’aggettivo usato dal sopracitato Oliviero Toscani (“Bravissimi”, ha detto a quelli del Tempo), più semplicemente, sono d’accordo con la scelta del quotidiano della capitale. Perché?

Per una serie di motivi, che stanno dentro il più complesso e strutturato discorso del rapporto tra media e società.
Per esempio, perché credo alla buona intenzione della redazione de Il Tempo di gridare a tutti: “Non chiudete gli occhi” (che poi era il titolo d’apertura del giornale romano).
E ancora, perché su tragedie di queste proporzioni, è bene – credo – non passare sotto silenzio l’orrore che esse si portano dietro. E così la si smetterà anche di considerare un “danno collaterale” del business degli sbarchi la morte di 45 uomini, stipati dentro la ghiacciaia di un barcone.
“Era come Auschwitz”, ha detto uno dei primi entrati in quella camera a gas.
E allora, al di là delle piccole finzioni politicamente corrette, proviamo a chiederci: quanto sono “servite” a tutti (e non solo all’Europa) le immagini dei lager tedeschi, per avere finalmente contezza del dove e del come era morta la civiltà europea, circa 70 anni fa?

Di nuovo, per esempio perché credo che certe tragedie comuni e comunitarie vadano testimoniate. Perché, appunto, sono comuni e comunitarie. Cioè, non riguardano il dolore di una famiglia sola, ma riferiscono di un dramma di popolo (il popolo dei migranti, in questo caso, fatto di uomini e donne e vecchi e bambini) e interrogano ciascuno e tutti.
(E qui, apro ancora una parentesi: il mio “sì” alla pubblicazione delle foto di una tragedia di popolo vale quanto il mio “no” rispetto alla pubblicazione di foto della tragedia di un uomo. In quest’ultimo caso, sì: trovo che sia come cedere al voyeurismo pubblico rendere visibile il volto o il corpo della vittima di un incidente stradale, domestico o, peggio, di un suicidio. Perché il dolore di una famiglia è questione privata e come tale va preso. Con discrezione e delicatezza: sentimenti che – per qualche clic, o qualche lettore, in più  – non è il caso di sacrificare).

Infine, tornando ai perché. Ho apprezzato moltissimo che il nostro premier Matteo Renzi – nel suo discorso d’insediamento a Strasburgo per il semestre europeo a guida italiana – abbia citato per nome Asia Bibi, Meriam e le ragazze rapite in Nigeria da un gruppo fondamentalista. Ma l’avrei apprezzato ancor di più, il nostro premier, se si fosse soffermato un po’ (chiedendo un minuto di silenzio all’aula degli eurodeputati?) sull’ennesima tragedia del Canale di Sicilia.

Ovviamente, qualche parola Renzi l’ha pure spesa sulle stragi dei migranti, sul riferimento alla frontiere libiche, sulla necessità di “far fronte ai flussi migratori con operazioni italiane, ma riusciremo a far meglio attraverso Frontex plus”.
Ma da un premier capace di rottamare ruoli, regole e protocolli mi sarei aspettato qualcosa in più. Che so, un abbraccio, verbale e ideale, a questa meridionalissima parte d’Europa che, nonostante gli immani sforzi di accoglienza e soccorso messi in campo, troppe volte ha assistito alla morte di uomini e donne. Una terra che spesso si sente (anzi, è) sola di fronte agli esodi biblici dei migranti. Una terra fortunatamente ancora capace di piangere, indignarsi e marciare di fronte alle tragedie. E spesso nell’indifferenza del resto d’Italia e d’Europa.

Ecco, su questo nemmeno una parola da Renzi.
Forse per parlare meno di numeri e più di persone, davanti all’Europa riunita, occorreva un po’ più di coraggio. Quel coraggio che hanno avuto al Tempo, pubblicando quelle foto, che sono come uno schiaffo alle coscienze di tutti (siciliani, italiani, tedeschi, francesi… europei) e invitano a rimanere svegli e con gli occhi aperti e ricordandoci di cosa si sta parlando quando si parla di migranti morti.