Matrimoni gay e unioni civili: serve una legge, prima che la faccia il Papa

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Unioni civili, per l'Unaar atto inutile

E si discute. Mamma mia, quanto si discute. Intorno a un’intervista rilasciata a Panorama dagli stilisti Dolce & Gabbana su famiglie tradizionali e famiglie gay con figli. E anche per la risposta seccata e piccata di Sir Elton John (e di altri vip internazionali), che con il suo compagno due figli li ha.
E giù a discutere (lo sport preferito, in questo Paese) e a prendere posizioni, pro o contro (speciale campionato dello sport suddetto).

Nel mentre (anzi, per la precisione, prima, a inizio marzo) anche (e stavo per scrivere “persino”) la Sicilia guidata da un governatore molto sensibile al tema, ha dato il suo ok al riconoscimento e al registro delle unioni civili, diventando così la seconda regione italiana, dopo la Liguria, ad aver detto sì alle coppie di fatto. “Spatti” – mi si conceda il sicilianismo – all’Ars è stata scritta una legge avanzata, secondo il sacro (ed elementare) principio democratico per cui permettere ad alcuni di esercitare i propri diritti non implica il costringere gli altri a fare lo stesso.

Chissà se spinto da tutto ciò, ora pare che anche il Governo voglia – finalmente – mettere mano alla legge sulle unioni civili, che giace da un bel po’ nei cassetti del Senato. E di farlo entro questa primavera, possibilmente prima delle elezioni regionali di maggio. Questo, almeno, è l’intento del presidente del Consiglio Matteo Renzi. Che ai parlamentari del suo partito, riuniti al Nazareno per discutere del tema, ha posto anche un importante distinguo accelerare solo per il riconoscimento delle coppie gay, tenendo fuori gli eterosessuali.

Sia come sia, giusto per fare un raffronto: in Europa i matrimoni gay sono legali in 11 Paesi (su 28): Paesi Bassi, Belgio, Spagna, Norvegia, Svezia, Islanda, Portogallo, Danimarca, Francia, Regno Unito, Lussemburgo, Finlandia e Slovenia. In tutti gli altri ci sono le unioni civili. Solo 9 Paesi su 28 non prevedono nessun tipo di tutela per le coppie omosessuali.
E da noi, in Italia? Si discute. Ancora. Si discute sempre. E basta.
Perché a quell’elementare principio – per cui tutelare i diritti di alcuni non significa, di conseguenza, imporli anche agli altri – da noi si ribatte con questo comodo adagio: “Il Paese non è ancora pronto”.

Ma “pronto” a cosa? All’inarrestabile globalizzazione dei costumi e delle abitudini? A una società glocale (dove tra il globo e la piazza del più sperduto dei paesini c’è un’interconnessione continua) in galoppante evoluzione? E ammesso (e non concesso) che sia così: quando mai, di grazia, sarà pronto questo Paese? Fra un anno, un lustro o un secolo?
E allora? Cosa aspetta l’Italia a raggiungere il grado di civiltà mostrato e messo in campo dalla Regione Sicilia? Dopo quello siculo, tocca al Parlamento italiano – paralizzato dall’irrealizzabile volontà di non scontentare alcuno e quindi scontentando tutti – battere un colpo.

A meno che, non ci rassegniamo all’idea di essere (e vivere in) un Paese che, pur discutendo, preferisce non osare, non decidere, non indisporre i sentimenti Oltretevere. Ma anche qui, qualcosa non torna: la “famiglia tradizionale”, richiamata anche dai due stilisti nella loro intervista, oggi è diventata un abito stretto (sui fianchi e in vita) anche per buona parte dell’opinione pubblica cattolica.
“Chi sono io per giudicare un gay?”, si era chiesto l’estate papa Bergoglio. Ecco, vuoi vedere che toccherà a lui, al Papa, spingere – con i suoi discreti, spiazzanti e francescani modi – la timida politica italiana ad adeguarsi al mondo che cambia?