‘Cristo si è fermato a Lampedusa, Allah è solamente sbarcato’ il libro del ragusano Fabio Manenti

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fabioI migranti che sbarcano sulle nostre coste e quelli che purtroppo non ce la fanno.

Chi si adopera ogni giorno con devozione, solidarietà, umanità a rendere l’arrivo e la permanenza di queste persone dignitosi, e chi continua a fare propaganda aizzando l’odio con ogni mezzo di comunicazione ormai disponibile. Un tema che spacca nettamente in due l’Europa, ma anche l’Italia. Da una parte i cittadini di Goro che innalzano barricate, non solo fisiche ma soprattutto mentali, per rimanere chiusi nella propria ‘isola’ che si illudono sia felice e dall’altra parte l’esempio di Lampedusa chi ogni giorno accoglie queste persone, nonostante loro per primi si sentano abbandonati, emarginati.

Di quest’isola e dei suoi abitanti ne ha parlato Fabio Manenti, 29enne nato e cresciuto a Ragusa, ma che ormai vede solo tre volte l’anno perchè vive e lavora a Parma dove si occupa di giornalismo e comunicazione. Il suo libro si intitola “Cristo si è fermato a Lampedusa, Allah è solamente sbarcato” edito da Battei.

Il titolo del tuo libro centra subito gli argomenti principali. In primis i lampedusani e di conseguenza il loro imprescindibile rapporto con i migranti. Ci spieghi di cosa narra?

Parla della Lampedusa che “resta”. Ho vissuto sull’isola per qualche tempo, a caccia di storie, e ho trovato quelle di chi sbarca, certo. Ma a colpirmi di più sono state le vite dei lampedusani. Un’isola che è come un paese di Sciascia, orgogliosa e fragile. E sconosciuta. Di Lampedusa si parla solo per gli sbarchi mentre pochi sanno che lì si paga tutto più caro che nel resto d’Italia, che le scuole sono a lungo inagibili e i professori assenti con certificati medici di comodo, che le compagnie aeree la isolano d’inverno. Che non c’è ospedale e se ti ammali di cancro e hai bisogno di cure continue non puoi far altro che scegliere se morire o vendere tutto e andare via. Il titolo, “Cristo si è fermato a Lampedusa, Allah è solamente sbarcato” viene proprio da questa forte volontà di denuncia.

Un libro che non è nato come tale, ma bensì dal desiderio di realizzare una tesi di laurea che non fosse semplicemente compilativa…

Esatto. E’ nato come tesi di laurea quando avevo 24 anni. Studiavo giornalismo e volevo un progetto da giornalista. Quando l’ho proposta a Maurizio Chierici, che del giornalismo ha fatto la storia e che ho scelto come relatore, mi ha detto solo: “Quando parti?”.
Una volta lì ho subito deciso di scriverla come un libro, forte dell’esperienza di altre piccole pubblicazioni. E alla fine, sugli scaffali delle librerie, c’è arrivata davvero.
I lampedusani sono costretti a vivere la quotidianità come una sfida. Hai parlato prima di alcuni dei problemi con cui devono convivere giornalmente e nonostante questo, continuano ad accogliere senza riserve. Come affrontano tutto questo?

Pensano di essere soli. Il fenomeno immigrazione lo vivono tutti i giorni, sulla loro pelle. E nonostante le mille sfortune che già sopportano e di cui vi accennano prima, continuano a soccorrere e a portare a riva. Loro sanno cosa vuol dire aver paura del mare. Hanno visto il loro minuscolo paese triplicare il numero di abitanti in pochi giorni, Lampedusa gonfiava, e hanno sentito bambini boccheggiare come pesci sott’acqua, raccolto cadaveri tra gli scogli. Hanno il cuore, pieno di umanità e di rabbia: non possono accettare che si muoia così, non possono ascoltare altre false promesse e poi restare sempre dimenticati. Ai lampedusani, chi ci pensa?

A te, quale immagine è rimasta impressa nei giorni in cui sei stato a Lampedusa?

Ho un’immagine e una sensazione. L’immagine è quella di via Roma, il corso che attraversa il paese: d’inverno è terra di randagi e uomini cotti dal sole che aspettano come per sempre.
La sensazione, straordinaria, è quella del dimenticare di guardare l’orologio. A Lampedusa tutto il mondo è lì: non c’è altro e non c’è fretta. Non servono appuntamenti, ci si incontra e basta. Forse è per quello che chi vive Lampedusa davvero, non per turismo, non riesce a dimenticarla.

Sei più tornato a Lampedusa dopo aver scritto il libro? Cosa è cambiato?

Sono tornato quando c’è stata la tragedia più grande, i 386 affogati dell’ottobre 2013. Il libro sarebbe stato pubblicato da lì a poco e non poteva tacere su quell’ecatombe, così aggiunsi un capitolo iniziale. Poi mai più, ma sento ancora qualche amico. E non credo sia cambiato molto. Nella primavera 2014, nel corso di una premiazione, incontrai il vice sindaco, Damiano Sferlazzo. E gli chiesi di tutti i mali dell’isola che più mi stavano a cuore; mi guardò e apri le mani: “Tu lo sai come funziona, noi che possiamo fare?”

Hai vissuto e girovagato per le strade di Lampedusa, parlato con i suoi abitanti. Che idea ti sei fatto di come viene gestita e un po’ sfruttata questo piccolo granello nel mar Mediteranneo?

Lampedusa fa il massimo che può: sono 6.000 vite, a 205 km dall’Italia. Ma non è un’Italia qualunque: è quella del sud, precisamente della provincia di Agrigento che non naviga certo nell’oro. Non può esserci agricoltura perché l’isola è brulla per colpa del forsennato disboscamento ottocentesco, né commercio o industrie. Si vive di turismo, d’estate e se i media non ingigantiscono gli sbarchi facendone apocalissi, e di pesca, quando la concorrenza non è feroce e il prezzo del gasolio accessibile.

Infine, hai un altro libro in cantiere?

Un libro nel cassetto ce l’ho, quasi finito da un anno ma che non ho trovato il tempo di chiudere del tutto. E’ una storia a cui tengo molto, bellissima, che merita il tempo e l’attenzione che adesso non riesco a darle.