Alzarsi le maniche e perseverare. Le donne e l’Arte

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Il giorno dopo in cui ho finito di scrivere il testo che segue, Vladimir Putin ha deciso di cambiare gli umori dell’intera popolazione mondiale. Mi sono chiesta per giorni, prima di inviare il mio contributo, se non fosse il caso di scrivere delle condizioni dell’Umanità, piuttosto che della Donna. Ma poi mi sono ricordata di aver scritto proprio tra queste righe che in tema di diritti si può andare avanti, ma si può anche tornare indietro. E allora non ho toccato nemmeno una parola.

C’è ogni giorno una festa del giorno per tante cose. L’intento è cercare di focalizzare in quel giorno un aspetto, da un punto di vista politico, o sociale, o commemorativo, di qualcosa: affinché non ci dimentichiamo di ricordare alcune cose, come genere umano abbiamo bisogno di istituirne la memoria.

Tra questi l’8 marzo universalmente è riconosciuto come il giorno internazionale dei diritti della donna. Come donna ogni anno ricevo auguri e mimose, e come donna mi viene spesso chiesto (prevalentemente da donne) come vivo da donna, specie nell’ambito professionale. Ogni volta mi infastidisco, perché la domanda contiene già il vizio di separazione tra vita professionale dell’uomo e vita professionale della donna. La mia forma mentis questa separazione non la vive. Chiaramente mi scontro con la realtà, quella dei numeri e delle statistiche e delle testimonianze, ma continuo a rifiutarmi di ragionare in forma dicotomica donna-uomo, preferendo il dato di merito, così universalmente fuori cultura e fuori moda nei decenni in cui viviamo.

Nel mondo dell’Arte, complicatissimo per via della naturale soggettività che lo contraddistingue, se non in casi palesi di molestie il più delle volte è complicato riuscire a individuare una discriminazione di genere: esistono così tante possibilità che un progetto non funzioni e così pochi indizi in capo alla discriminazione che si fa prima ad andare avanti e impiegare più fruttuosamente il proprio tempo. Ci sono però, in termini di parità di genere, dei numeri spaventosi e piuttosto evidenti nell’ambito della mia professione. Report di studi europei e internazionali sono chiari: la percentuale di registe che lavora è il 23% del totale*, di sceneggiatrici il 27% del totale*. Le produzioni che danno voce a registe donne sono quasi interamente indipendenti, questo significa che per lo più una donna quando vuole fare il primo film se lo fa da sola e sulle proprie spalle, e con molti sforzi ci si può riuscire ad arrivare. Ma è il secondo film il vero spartiacque. Dal secondo si comincia ad avere bisogno di investimenti più importanti, ed ecco il punto cardine: al secondo film arriva solo una percentuale minima delle donne che ne ha già fatto uno, indipendentemente dal successo del primo.

Consiglio di vedere due documentari che rendono bene l’idea: This Changes Everything (Tom Donahue, USA 2018) e Half the Picture (Amy Adrion, USA 2018). In questi documentari registe e sceneggiatrici raccontano la loro esperienza, supportate dagli endorsement di alcune delle più importanti personalità del mondo dello spettacolo, come Meryl Streep, Cate Blanchett, Jessica Chastain, Natalie Portman, Geena Davis e Reese Witherspoon. Sono testimonianze da oltre oceano dove il cinema mostra maggiormente il suo volto industriale, ma per parlare un po’ della nostra Europa mi piace citare il test di Bechdel-Wallace, che nel 2013 l’Istituto svedese di cinematografia e nel 2014 Eurimages (il fondo del Consiglio d’Europa per la produzione cinematografica) hanno incluso come criteri necessari alla valutazione di un copione in ottica di analisi sull’uguaglianza di genere nei progetti. Il test è stato sviluppato da Alison Bechdel e Liz Wallace, e nell’enunciare tali principi hanno fatto riferimento a uno scritto del 1929 di Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé relativamente al passo in cui la scrittrice inglese lamentava che nella letteratura del proprio tempo la figura femminile fosse rappresentata solo in quanto dipendente o comunque soggetta a quella maschile. Nel caso del test di Bechdel-Wallace non si analizzano i dati di chi gira, scrive o produce un film, ma la storia contenuta nella sua narrazione. Il test è tanto semplice quanto esplicativo. Passa il test solo chi soddisfa tre condizioni:

  1. devono esserci almeno due donne che
  2. parlino tra di loro di qualsiasi argomento che
  3. non riguardi un uomo.

Pensate ai vostri film preferiti: il test non viene superato da moltissimi film.

Ma al di là dei dati dei film, delle produzioni e delle storie, l’occasione perduta di questo stato dei fatti è che si sia privati dello sguardo di una donna. Una storia raccontata da una donna contiene un mondo diverso da quello raccontato da un uomo. Senza necessariamente entrare nel merito di quale sguardo sia il più accattivante e senza generalizzare sulla dicotomia donna-uomo, che siano fruibili opere la cui stragrande maggioranza degli autori siano uomini non corrisponde al sentire culturale che aleggia nella vita che viviamo, fatta di una popolazione diversificata, molto più della dicotomia donna-uomo. Forse questo è uno dei motivi per cui il cinema ha scambiato spettatori in cambio di utenti. Fino a poco tempo fa si raccontava una storia e la si proiettava in una sala buia, ed era arte cinematografica. Ora per lo più si tratta di intrattenimento. Chissà se è anche in seguito a questa crisi d’identità che dall’anno scorso abbiamo perso il Festival di Cinema e Donne di Firenze, dopo più di quarant’anni di notevole attività culturale.

Ecco, questo è lo spazio dentro al quale si muove una donna che decide di fare la regista.

Negli ultimi anni ho diversificato gli ambiti della mia ricerca mettendomi in gioco anche in altri generi di espressività. La vita è un’avventura meravigliosa che vale la pena venga vissuta intensamente, sfidando le proprie paure e conducendo le proprie esperienze alla scoperta di ogni aspetto che contiene segni di nutrimento. Le difficoltà sormontabili si possono superare, quelle insormontabili aggirare. Ogni esperienza può essere vissuta sempre come fonte di ricchezza.

A rimanere solo a ragionare sopra i dati non si ottiene molto, sono sempre stata molto pratica. Sono erede di generazioni di donne che hanno lottato duramente affinché il punto di vista femminile fosse prima considerato, poi rispettato, e forse un giorno sarà anche adeguatamente parificato. Lo spazio di una persona è innanzitutto quello che è capace di immaginare, la libertà è prima di ogni altra cosa uno spazio intellettivo, e quella che ho la considero preziosa e intoccabile, perché la Storia insegna che in tema di diritti non si va solo a progredire, ma si può tornare anche indietro. Mi sembra essenziale dedicarmi a proteggere innanzitutto l’autenticità del mio sguardo libero e affinare la mia sensibilità, sfruttare lo spazio fisico che trovo e dilatarlo sempre di più. Alzarsi le maniche e perseverare.

In questo, me lo consentirete, una donna la sa veramente più lunga.

Alessia Scarso