Perché ho voluto incontrare Adriana Faranda

5

Quando ho saputo che si stava organizzando a Modica una mostra di Adriana Faranda, non ho esitato ad accettare di dare una mano: mi interessava conoscerla, sapere, capire, mi interessava scoprire come si può fare tesoro di lunghe esperienze dolorose, come si può trasformarle ancora in un modo di stare al mondo. 
Quindi chi ora mi legge è già avvertito che ho un punto di vista – diciamo così, per dare un assist a chi mi vorrà rispondere male – molto “partigiano”. 


Ho bisogno di scrivere che sono rimasta sorpresa e sconcertata, sin dai primi giorni in cui abbiamo invitato amici e conoscenti all’inaugurazione della mostra, scoprendo un diffuso allarme per questa presenza scomoda e ingombrante. E lo sono tuttora, continuando a leggere sul web i commenti – tanto ben argomentati quanto insopportabilmente saccenti – di persone che non erano disposte ad accogliere la Faranda a Modica, che hanno storto il naso per un’iniziativa che hanno considerato provocatoria, anarchica, almeno inopportuna, e a cui naturalmente non è passato nemmeno per la mente di giudicare solo dopo essersi almeno presi la briga di venire a vedere e sentire. 
Se tutti questi benpensanti – molti dei quali sono stati di sinistra e forse hanno dimenticato cosa vuol dire essere di sinistra, quando si parla di diritti e in particolare di quello all’eguaglianza nell’accesso ai diritti – avessero avuto l’umiltà e la curiosità (che è anch’essa, in fondo, una forma di umiltà) di venire ad incontrare e ad ascoltare la Faranda, senza per questo sentire minacciate le proprie incrollabili certezze sulle categorie del Bene e del Male, avrebbero scoperto che non va più in giro coi volantini ciclostilati, che non tiene più in borsa i comunicati rivendicativi da recapitare alle redazioni dei giornali, e avrebbero pure avuto l’occasione di conoscere una donna di una cultura sterminata (probabilmente più della loro) e di un ancor più sterminato senso dell’umanità. 



 

Ma dico subito che io nel 1978 non ero ancora nata. Ammetto dunque che può esserci una differenza anche sostanziale tra il punto di vista di chi ha vissuto l’orrore e lo sgomento dei 55 giorni del rapimento di Aldo Moro, e chi come me ha solo per interesse personale e inclinazione professionale voluto indagare su tutto ciò che sui banchi di scuola non le hanno voluto spiegare, leggendo centinaia e centinaia di pagine di testimonianze, ricostruzioni, riflessioni sugli anni di piombo: l’ho fatto non certo perché fossi attratta dall’idea della rivoluzione, men che meno da quella della lotta armata, ma solo per il turbamento, gli interrogativi, la necessità di capire fino in fondo quel momento cruciale della storia d’Italia, certamente ancora non del tutto illuminato. Sì, forse c’è una differenza tra chi in quegli anni c’era ed era elettore o addirittura dirigente di quella Dc e di quel Pci (lo sarei stata anche io, con ogni probabilità), che forse ebbero una (mai ammessa) porzione di responsabilità nella condanna a morte di Aldo Moro e a cui non sono bastati 35 anni per trasformare la cronaca in storia, i nemici in testimoni, l’orrore in insegnamento, e chi come me pensa che il passato serva conoscerlo tutto, per guardare al futuro. 



 

Ma proprio perché c’è questa differenza, proprio perché io non c’ero, penso di potere e di dovere rispondere a chi, per spiegare perché la Faranda a Modica non sarebbe dovuta venire, si aggrappa all’argomento delle giovani generazioni e del monito di cui avrebbero bisogno per crescere ben inquadrate nei valori nazionali. 


Chi ha vissuto quel periodo storico, forse si pensa ancora nel 1978 e non si è accorto che sono passati 35 anni, non si è accorto che incontrare la Faranda non vuol dire rischiare di accettare ex post un riconoscimento politico delle Brigate rosse, e portarla a parlare nelle città, nelle librerie, nelle televisioni, nelle scuole, non vuol dire addestrare squadroni di nuovi brigatisti: come non lo è leggere tutti i giorni gli articoli di Adriano Sofri su Repubblica e l’Espresso, come non lo è leggere i libri della Faranda stessa e di suoi colleghi come Anna Laura Braghetti, che con le sue parole ha poi ispirato quel film folgorante che è “Buongiorno, notte” di Bellocchio.


Basti pensare che in città più culturalmente avanzate e illuminate di quel che Modica si presume di essere, con la sua schiera di illustri intellettuali, la Faranda l’hanno invitata nelle scuole, a parlare coi ragazzi: non si scandalizzerà nessuno se cito il caso di Favara (e invito chi ha la serenità per farlo a leggere questo bell’articolo su quell’incontro). E sono sicura che questi ragazzi, esattamente come me, non dimenticheranno per il resto della vita di aver incontrato una donna che in un certo momento aveva creduto che la lotta armata fosse lo sbocco delle proprie ideologie e di aver sentito dalla sua viva voce ammettere che è stato un errore e che questo errore loro (noi) non dovranno (non dovremo) ripeterlo. 


Forse qualcuno è troppo affezionato alla storia mediata dal racconto dei libri, possibilmente quelli scritti dai vincitori. Il mio amore per la cronaca, la mia fiducia nel senso critico di ognuno, mi fa pensare che l’ascolto di un testimone oculare, addirittura di un protagonista della storia, per lo più sconfitto, possa insegnarmi di più. 


Per questo ho voluto incontrare Adriana Faranda. 



 

Aggiungo, per precisione, che Adriana Faranda non è venuta a Modica per parlare di Brigate Rosse: è venuta a Modica per presentare la sua mostra d’arte, che peraltro offre spunti di riflessione di una rara e spiazzante lucidità sulla società contemporanea. 


Riconoscere dunque non ad un ex brigatista, ma a una persona qualunque, ad un cittadino italiano qualunque, il diritto alla riabilitazione sociale, non c’entra nulla nemmeno con la storia e con la politica (sottoscrivo in pieno a questo proposito – e non ho bisogno di ripeterle – le parole dell’amica Patrizia Terranova e del collega e amico Paolo Borrometi). 



Chi oggi punta il dito su Adriana Faranda, chi si sente così tanto nel giusto da poter stabilire a chi, nel mondo, bisognerebbe dare meno diritti che ad altri, in tema di umanità non è meno cieco né meno confuso di chi 35 anni fa puntò il grilletto su Aldo Moro. 


Adriana Faranda, nel corso delle interviste che ci ha concesso, ci ha detto a proposito del giudizio nei confronti di chi – a differenza sua – non si è dissociato dalla lotta armata: “Nessun giudizio, soprattutto da parte nostra, che siamo già incorsi nell’errore e nell’arroganza di giudicare”. Ecco, se tutti quei benpensanti che non volevano che venisse a Modica, fossero invece venuti a sentirla, non solo avrebbero avuto l’occasione di conoscere una donna di una cultura sterminata (probabilmente più della loro) e di un ancor più sterminato senso dell’umanità, ma avrebbero addirittura rischiato di imparare questa cosa.