Il figlio di Riina in tv? Un’occasione sprecata

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Ragusah24 - porta_porta_riinajr

Alla fine è andata come doveva. Ed è stata un’occasione sprecata, a mio parere. E sto parlando dell’intervista a Porta a Porta di Salvo Riina, il “figlio del capo dei capi” (come recitava la scritta sul vidiwall dello studio di Bruno Vespa). Un’occasione sprecata, su più livelli. Giornalistico, in primis. Ma anche socio-culturale. E pure sotto il profilo della memoria. Perché? Perché è stata sbagliata la sceneggiatura dell’evento, secondo me. No, non il tema o il soggetto della puntata, ma la sceneggiatura. Cioè: il contesto, la cornice, le domande e i margini di agibilità lasciati all’intervistato.

Al netto dell’indignazione (un po’ censoria, se posso dirlo) di molti (anche di persone di notevole peso politico, come Rosy Bindi – presidente della Commissione Antimafia – e Pietro Grasso – presidente del Senato), la presenza sulla tv di Stato del “figlio di Totò” a me è sembrata (oltre che un gran bel colpo giornalistico) per niente scandalosa. Almeno non lo è stata a priori e a prescindere. Per questo concordo con chi (da una posizione più autorevole della mia) in queste ore ha sostenuto l’opportunità della messa in onda dell’intervista. Non c’è stato scandalo nell’aver fatto parlare il figlio di Riina, semmai c’è stato nel “che cosa gli si è fatto dire”.

D’altronde la storia, non solo giornalistica, è fatta – fortunatamente – di numerose interviste a uomini “impresentabili”. Come ha scritto Claudio Fava in post su Facebook: “Io lo avrei intervistato, il figlio di Riina. Come a Panama ho intervistato il generale Noriega. In Somalia il signore della guerra Aidid. A Bagdad il vice di Saddam, Tarek Aziz quando il suo capo era in guerra col mondo. E in Salvador il colonnello D’Abuysson. A Roberto D’Abuysson chiesi, senza giri di parole, se fosse vero che monsignor Romero l’aveva fatto ammazzare lui. Non mi rispose: si tolse gli occhiali a specchio, li pulì a lungo, li inforcò di nuovo, mi guardò. E non mi rispose. Poi mi disse che l’intervista era finita. Fu la mia migliore intervista”. E Massimo Gramellini (qui: www.lastampa.it/2016/04/07/cultura/opinioni/buongiorno/vespa-siamo-Dh2pSTXWZk3mXDVILI3XLJ/pagina.html) ha ribadito: “Fallaci, Biagi e Montanelli intervistarono tiranni e banditi alla macchia. Ora quelle interviste si studiano nelle scuole”. Mentre Luca Sofri, argutamente, si è chiesto (qui: http://www.wittgenstein.it/2016/04/07/intervista-riina-porta-aporta/): “Immaginiamo che Milena Gabanelli avesse intervistato a Report il figlio di Totò Riina. Io sono sicuro che la maggioranza di quelli che hanno chiesto che l’intervista non andasse in onda non avrebbe fiatato, a cominciare da Rosy Bindi e Pietro Grasso.”

E allora, torno a dire: a mio avviso si è sbagliato sceneggiatura e narrazione. Cioè: 1) è stata sbagliata (ed è questo a lasciare perplessi) la scelta di far parlare il figlio di Riina non di mafia o di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino (e, via via, di Francesca Morvillo, delle loro scorte e di tutte le altre persone che il capo dei capi di Cosa nostra ha fatto ammazzare), ma del suo libro, uscito in questi giorni, con un titolo anglofono, vagamente ammiccante: “Riina family life”. Non averlo cioè fatto parlare degli amici, e complici, del padre, dei suoi segreti, dei suoi rapporti in Sicilia e a Roma; ma aver accettato che parlasse della vita di una tranquilla famiglia siciliana e di una “vita vissuta anche in maniera piacevole nella diversità“. Con un papà che tutti cercavano e che invece se ne stava a casa sua, con moglie e figli. Che la sera della strage di Capaci se ne stava seduto in poltrona a seguire i Tg. Che portava i figli al mare, mentre la Sicilia onesta bruciava tra le fiamme assassine di via D’Amelio. Scene lontane, che rimangono sullo sfondo, nelle parole di Salvo Riina. Che dice di non accettare le sentenze di condanna di suo padre, verso il quale non ha mai nutrito sospetti.

2) È stata sbagliata la scelta di inserire l’intervista dentro l’andamento ordinario del programma, mischiandola ad altri argomenti e altri temi. Un colpo giornalistico di tal fatta – conseguentemente al punto sopra – avrebbe meritato un’altra scaletta, se non una puntata a sé. Anche perché, inserendolo in una puntata qualsiasi, lo si è fatto passare per una cosa normale, qualsiasi. Un servizio come tanti. Che potrebbe far sorgere, in chi l’ha guardato, l’idea che è normale che il “figlio del capo dei capi” dell’Antistato parli pro domo sua, dagli schermi della tv di Stato. Cioè parli della bontà di suo padre come papà e uomo di famiglia, senza contraddittorio (se non quello dell’intervistatore) e a ruota libera. Un po’ come se il mostro, dapprima sbattuto in prima pagina, diventasse poi “il mostro della porta accanto”.

3) È stata sbagliata la scelta di invitarlo e intervistarlo in studio. Uno studio, quello di Vespa, da tutti definito “la terza Camera” delle nostre istituzioni. (Anche per il merito del conduttore nel trasformare, negli anni, il proprio salotto televisivo in un luogo politico-istituzionale, al pari di Camera e al Senato). E quindi invitare “il figlio del capo dei capi” lì, in quello studio-istituzione, è come averlo fatto entrare nell’istituzione stessa. Meglio sarebbe stato intervistarlo in un luogo altro: che so, in uno studio delle sedi regionali della Rai, per dire.

4) Ed è (stata) sbagliata, infine, la scelta di una puntata “antimafia”, messa in palinsesto quasi a riparare l’intervento del “figlio di”. Una puntata che ha tutta l’aria di essere una toppa su un buco. A che cosa puntiamo? A una sfida tra mafia e antimafia, dove vince chi ottiene più audience? O è solo un modo, imbarazzante e imbarazzato, per ripulirsi la coscienza?

Ecco perché l’ospitata in tv del “figlio del capo dei capi” è stata un’occasione persa. Secondo me. Ma come? Hai la bravura di portare il figlio di Riina “in studio” e non riesci a costruirgli intorno una narrazione complessa, compiuta, dettagliata che costringa il tuo ospite a misurarsi con la memoria dei martiri di Cosa nostra, a dare un giudizio di valore sul periodo più buio e doloroso della storia repubblicana?

Ci sono voluti decenni perché questo Paese (e non solo la mia Sicilia) si affrancasse dall’idea insostenibile che “la mafia non esiste”. Ci sono voluti decenni perché la gente di questo Paese (e non solo della mia Sicilia) potesse invece dire – anche senza scorta – che “la mafia è una montagna di merda”. L’ospitata sulla tv pubblica del figlio di Totò Riina sarebbe dovuta servire a gridarlo una volta di più e ancora più forte. Peccato: un’occasione persa.