Della signora Dumbo, o dell’eterno conflitto interiore dell’universo femminile

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“Piange Dumbo!” – esclamò la mia Sofia, già sorella maggiore di Elena. Aveva circa due anni e mezzo e sfogliavamo assieme il libro a colori che le avevo comprato e che riproduceva, assieme alle didascalie, alcune delle immagini più belle di “Dumbo”, capolavoro Disney.

“Perché piange Dumbo?” – le chiesi, volendo incoraggiare le sue ormai spiccate abilità comunicative.

“Non c’è la sua mamma” – rispose lei commossa, ma sicura.

“E dov’è la sua mamma?”

E lei, senza esitazione alcuna, stupendosi quasi dell’ovvietà di quella domanda, accompagnando la risposta con un gesto della manina che voleva rimarcare il dato di fatto, esclamò: “A scuola!”

Ahi dura terra, perché non t’apristi?

Non credo di essermi mai più ripresa da allora, e anche se oggi le mie figlie sono delle giovani donne, lo stesso senso di colpa mi attanaglia a volte come oltre vent’anni fa. Avevano un bel dire amiche, cognate, colleghe che in fondo quel che importa è la qualità e non la quantità del tempo che dedichiamo ai figli… Che ne sapevano loro della mamma di Dumbo!

Anch’io, mi dicevo, avevo avuto una mamma che lavorava, ed in un periodo, gli anni ’70, in cui non era così usuale, soprattutto in una cittadina di provincia, che una donna si dedicasse ad altro, oltre alla cura della casa e della famiglia. Ma la mia era stata un’infanzia tranquilla: vivevamo nella stessa casa dei genitori di mia madre, e mia nonna, donna di intelligenza e capacità straordinarie, colmava ogni eventuale assenza materna. O quasi… Perché, ora che ci penso, io ero gelosissima degli alunni di mia madre, del tempo dedicato a loro e non a me anche oltre l’orario di scuola, quando la maestra Graziella allestiva recite o accompagnava i pupilli ai Giochi della Gioventù, o, molto più noiosamente, compilava schede di giudizi intermedi e finali. Ce ne sarebbe stato abbastanza per odiare a morte l’istituzione stessa, ed invece la Scuola scorre nelle mie vene, come nelle sue, che ancora mi confessa di sognare spesso di fare lezione tra gli occhi gioiosi e attenti dei suoi bambini.

La Politica, invece, e il desiderio di impegnarmi al servizio della mia comunità mi sono giunte per linea paterna. Le lunghe riunioni fino a tarda sera, quando l’ultimo cliente era andato via dallo studio, tra nuvole di fumo (non era ancora arrivata la coscienza salutista!) e di parole, erano il motivo dell’insofferenza di mia madre. Mio padre non aveva altre passioni, oltre la passeggiata a caccia tra le campagne del circondario – un pretesto per immergersi nella Natura, più che altro, tant’è che i conigli alla cacciatora si gustavano a casa nostra solo quando qualche amico gliene faceva dono -, e appunto, la Politica. Aveva frequentato, giovanissimo, alla fine del secondo conflitto, la parrocchia di S. Giuseppe, a Comiso, dove intorno al mitico Padre Ferlante tanti giovani imparavano l’arte nobile del servizio laico, attraverso l’impegno politico. Fu mio padre, alla fine di una lunga telefonata notturna, quel lontano 22 maggio del 2008, a darmi la sua benedizione: mi avevano chiesto una mano dei “galantuomini”; potevo impegnarmi con fiducia, quindi, se lo avessi voluto! Lo feci, e non me ne sono pentita. Senza il suo benestare di allora oggi non sarei il sindaco di Comiso, e non lo sarei senza l’appoggio incondizionato di mio marito, che ha sempre diviso con me i pesi della vita, da grande sostenitore, e soprattutto da critico inflessibile, quando è necessario.

Tornando al rapporto qualità/quantità di tempo da dedicare a me stessa e ai miei affetti, mentre con l’impegno da sindaco, soprattutto durante i due ultimi anni di pandemia, la quantità tende allo zero, essendomi donata quasi esclusivamente ai miei doveri verso la mia cittadinanza, bisognosa oltre che di ovvi sostegni materiali, soprattutto di una presenza forte e costante, forse non è stata intaccata la qualità. O, ancora meglio, secondo la sintesi più compiuta della dialettica hegeliana, forse sono riuscita ad arrivare alla “misura”, lo stadio in cui quantità e qualità si congiungono. Lo percepisco dal consenso  affettuoso e generoso che mi circonda; lo sento nell’amore di mia madre, che mi attende ogni sera per scambiare due chiacchiere e per dare corso a quelli che io chiamo “i riti di fine giornata”, piccoli gesti di cura e di attenzione che, in questo gioco di ruoli invertiti per cui diveniamo ad un tratto i genitori dei nostri genitori, non so se facciano più bene a lei o a me; lo vedo con chiarezza negli occhi delle mie figlie: nell’arguzia, nella generosità e nello spirito della più giovane, mia “fotocopia” ma di molto migliore dell’originale, che è riuscita caparbiamente nel suo sogno; nella voglia di scoprire il mondo, senza porsi limiti e barriere della maggiore, che ci mise circa sei ore, immobile, a farsi acconciare la chioma leonina in centinaia di minuscole trecce da una sua coinquilina, che anche grazie a quest’arte si manteneva, costretta in collegio, a Venezia, dall’acqua alta. La presi in giro, quella volta, dicendole che avrebbe potuto semplicemente darle i trenta euro, tenendosi i suoi bei ricci ed evitando le sei ore di “tortura”. Mi rispose severa di no, che in quel modo sarebbe stata “elemosina”, e invece era stato “lavoro”!

Beh, posso dirmi soddisfatta, tutto sommato, e silenziare il mio senso di colpa, che di tanto in tanto, lo confesso, come il dondolio lento della signora Dumbo, torna a pungermi la coscienza: noi donne abbiamo fatto, nella nostra parte di mondo, progressi eccezionali, se si considera il breve intervallo che intercorre tra il nostro primo accesso alla vita e all’impegno pubblico e l’oggi, riuscendo a conciliare la professione e le nostre passioni con il ruolo di mogli, figlie e madri. Con qualcuno al nostro fianco, che sappia condividerne il peso, poi, ci riesce ancora meglio!

Maria Rita Schembari