Antonio Virzì: l’informatico catanese che ci guida con lo smartphone

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Antonio Virzì, 39 anni, catanese di origine e londinese di adozione, che in parole povere è l’inventore di “NearMe”, una delle app di maggior successo al mondo per i dispositivi mobil

Nascere a Catania non è la stessa cosa che nascere nella Silicon Valley. Ma tra i due estremi della terra ci sono molte possibilità intermedie per chi ha un’idea da realizzare, molta determinazione e una certa disponibilità al sacrificio. “Io forse con i sacrifici ho esagerato, ma insomma: se hai un sogno devi essere disposto ad inseguirlo”, conferma Antonio Virzì, 39 anni, catanese di origine e londinese di adozione, che in parole povere è l’inventore di NearMe, una delle app di maggior successo al mondo per i dispositivi mobili.

Se hai uno smartphone, insomma, non puoi non scaricarla: tanto più che è gratuita e utile, semplice e funzionale, addirittura irrinunciabile per chi viaggia. A dirlo non è certo Antonio, né noi: è stata, tra gli altri, la CNN, che l’ha incoronata “Top Travel App” dopo una rigorosa selezione affidata ad una giuria di specializzati giornalisti americani. Con NearMe basta attivare il gps per trovare in pochi istanti tutto quello di cui si ha bisogno nelle vicinanze, dall’hotel alla farmacia, dal museo al ristorante: gli utenti si semplificano la vita, mentre commercianti e i grandi marchi pagano per registrare i loro negozi e per creare offerte commerciali. Se l’idea sembra addirittura banale per gli iPhone-nativi, va detto che in testa ad Antonio Virzì quest’idea frulla da oltre un decennio, quando di app nemmeno si parlava e lui, ai piedi dell’Etna, voleva trovare un ritaglio di mercato nuovo in cui farsi spazio per il proprio futuro.

Antonio nel 2001 si è laureato in ingegneria informatica all’Università di Catania e immediatamente è andato a lavorare prima a Milano e poi a Torino, come consulente per i grandi gestori telefonici italiani: “Ma già nel 2004″ racconta “ho deciso che avevo bisogno di fare un’esperienza più internazionale. Del resto, se bisognava stare lontani da casa, tra Milano e Londra non è che facesse poi tutta questa differenza. All’inizio cercai di cambiare un po’ settore, volevo esplorare il mondo delle produzioni televisive e cinematografiche, ma presto mi resi conto che una scelta del genere non è facile in un mondo, come quello dell’UK, in cui c’è una elevatissima competitività e conta più di tutto ciò che hai nel curriculum. Dopo un anno sabbatico passato a imparare la lingua, servire caffè da Starbucks e cercare la mia occasione, decisi di tornare nel mio campo. Iniziai a lavorare per una piccola azienda, una start-up che sviluppava software nel settore delle telecomunicazioni per grandi operatori: teniamo conto che ci muovevamo in un mercato mobile pre-iPhone, dove per programmare c’era bisogno di strutture e infrastrutture di alto livello e non bastava avere un’idea per riuscire a svilupparla, anche a casa propria. Dopo due anni arrivai a coordinare un team a livello mondiale, per cui ordinavo il lavoro dagli Stati Uniti all’Australia, con il risultato che le mie conference call iniziavano alle 4 del mattino e finivano a mezzanotte, per rispetto di tutti i fusi orari: capii che quella non era più vita, lasciai tutto e tornai a Catania”.

A Catania Antonio ha incontrato Dario Briguglio, uno dei suoi più cari compagni di Università, con cui da giovanissimo aveva condiviso il sogno di tutti gli informatici agli albori della carriera: il sogno di Google e di due ragazzi che inventano un colosso chiusi in un garage.
“Da sempre” ricorda Antonio “il nostro sogno era quello di fare una cosa tutta nostra. A quel punto io ne avevo le possibilità e cominciammo a lavorare, anche se Dario aveva un lavoro di consulenza che non poteva lasciare e mi aiutava part-time. L’idea iniziale era quella di lavorare sempre con gli operatori mobili italiani e aiutare le aziende straniere a lanciare servizi in Italia: purtroppo ci siamo presto resi conto che qui era estremamente svantaggioso e le condizioni economiche erano critiche. Nel frattempo fu lanciato l’iPhone e decidemmo di fare la prima riconversione dell’attività lanciando un servizio di ricerca delle attività commerciali: si chiamava Yeerp, ed è stato l’antenato di NearMe. Il nostro fu tra i primi servizi di localizzazione per iPhone, prima ancora che arrivasse il più famoso Foursquare. Ma noi eravamo solo due ragazzi, senza finanziamenti e con problemi di infrastrutture, perché vivendo a Catania non era facile stabilire contatti con i clienti. Allora non si sapeva nemmeno cosa fosse un incubatore, oggi forse è già tutto diverso”.
Anche per questo Antonio capì di voler provare a tornare a Londra e fare la stessa cosa lì: “Dario decise di non spostarsi, rilevai le sue quote e riattivai i miei contatti precedenti. Coinvolsi altre persone a Londra e iniziammo a sviluppare un prodotto nuovo, cercando di capire quali erano i servizi commerciali più adatti. Anche lì era evidente la differenza con l’America. Se l’Italia non è lontanamente paragonabile al resto d’Europa, l’Europa intera non è paragonabile a New York o alla Silicon Valley, dove le start up vengono finanziate anche sulla base di piccoli prototipi e senza business model definito. Qui si è molto meno propensi al rischio”.

Insomma, fu in quel momento che Antonio capì che bisognava scegliere di mettere su un’azienda e non una semplice idea o un prodotto: “La svolta fu concentrarci sulla parte commerciale. Nel giro di un anno e mezzo riuscimmo a chiudere contratti sia con piccoli commercianti sia con decine di clienti nazionali e internazionali, con migliaia di punti vendita che fecero aumentare enormemente la visibilità anche della nostra azienda. C’è stato un momento, alla fine dello scorso anno, in cui NearMe è apparsa più grande di quanto non fosse in realtà”.
Il mercato però non si ferma e si dà il caso che NearMe si ritrovi a competere non solo con il tradizionale e fortunato Foursquare, ma anche sullo stesso terreno di Google: “Alcune app che fanno il nostro stesso tipo di prodotto e sono nella stessa fase di vita del nostro, con limitate capacità di fatturato, diventano grossissime grazie solo a importanti finanziamenti. Per questo stiamo realizzando la seconda grande riconversione della nostra azienda, passando da un prodotto BtoC, diretto ai consumer, a un prodotto BtoB, diretto ai grandi brand. Sono molti quelli che per sviluppare i propri servizi hanno bisogno della nostra tecnologia e per questo abbiamo creato una piattaforma che può essere acquistata e implementata. Crediamo che questo cambio necessario sia la chiave di volta per il successo di NearMe nei prossimi anni e su questo stiamo investendo parecchio, pur essendo ancora una società molto piccola – abbiamo un team di 6 persone, oltre a una rete vendita di circa 20 collaboratori tra Italia e UK – e che fronteggia quotidianamente i rischi di un mercato ancora molto instabile”.

Di giovani come Antonio in Sicilia ce ne sono molti, soprattutto nella fiorente realtà delle start up catanesi, e a tutti lui consiglia di “essere pragmatici”: “Bisogna capire che per avere successo bisogna fare impresa, a tutti gli effetti, dall’inizio: creare un team forte, sapere come commercializzare e attrarre clienti”. Ma sul tema, sin troppo abusato, della fuga di cervelli, chiarisce: “Troppo spesso si cade nei luoghi comuni, ma non è detto che le persone ce la debbano fare per forza a casa propria. Il consiglio che dò ai ragazzi è solo quello di non porre paletti a ciò che possono fare per massimizzare le loro chance di successo. Se ti limiti a rivolgerti ad un solo territorio, sia esso la Sicilia o qualunque altro, a maggior ragione se vuoi creare un’impresa globale, rischi di limitare anche il tuo mercato. Allora se capita che la tua impresa ti porti all’estero, che ben venga. Un’esperienza fuori, peraltro, è formativa per chiunque: anzi, io sarei per renderla obbligatoria per tutti gli studenti, perché solo dopo aver visto come funzionano le cose fuori capisci che non c’è un solo modo di farle e torni a casa con la voglia di innescare il cambiamento”.

“Io ancora oggi non posso dire di avercela fatta” dice Antonio, con umiltà “anzi mi sento ancora in mezzo a un percorso lungo, in cui ci saranno ancora dubbi e momenti pesanti. Ma non immagino me stesso fare qualcosa di diverso, per cui sono pronto a superarli, anche se negli ultimi 4 anni ho lavorato 16 ore al giorno 7 giorni su 7. Di una cosa, infine, sono sicuro: che tutto questo non può farlo una persona sola e la vera forza sta sempre nel team che è disposto a credere nella tua idea e ad investirci il proprio tempo e le proprie risorse. Ciò a cui tengo di più è ringraziare tutti coloro che ci sono stati, non ci sono più o ci sono ancora, comunque indispensabili per ottenere i risultati che abbiamo ottenuto”.